di Luca Cecchelli (1980), Laureato in Lettere Moderne presso Università degli studi di Milano
Qualcuno affermò che «il testo di Amleto è più di Amleto»: spesso cioè s’incontrano nella tragedia shakespeariana personaggi psicologicamente a ben vedere più interessanti del noto, e a volte forse sopravvalutato, protagonista. È quanto coglie anche Andrea Baracco che, nell’indagare su quel “marcio in Danimarca” e nel sondare il tema della crisi esistenziale nelle pagine dell’opera, sceglie di mettere in scena Claudio, lo zio di Amleto, nell’ atto del suo pentimento: il drammatico monologo rivolto al Cielo sotto forma di un’ ossessionante preghiera fallita rappresenta il momento centrale di uno spettacolo basato per buona parte sulla spiccata gestualità e sulla “muta” rappresentazione fisica del tormento interiore. Accanto a Claudio sul palco, a condividere tale disperazione attraverso la dimensione corporea anche Gertrude, madre di Amleto, che, in una sorta di controscena, eloquentemente enfatizza e trasmette a sua volta il turbamento derivante dalla sua impotenza, specialmente in alcuni momenti – emblematico su tutti quello in cui non riesce a specchiarsi. In una scenografia caratterizzata soltanto da pochi oggetti funzionali alla recitazione – due coppe, uno specchio e una scala –protagonisti assoluti della scena sono letteralmente i corpi degli attori, Giandomenico Cupaiuolo ed Ersilia Lombardo, capaci di esprimere grande sensualità, soprattutto quando si avvinghiano o si sfiorano con grande tensione. Uno spettacolo squisitamente gestuale, che recupera la parola, forse un po’ accademicamente, nel monologo di Claudio.
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