INTERVISTA A FILIPPO DINI: “LOCKE” CI INSEGNA CHE L’UOMO NON PRODUCE CHE ERRORI E CAMBIAMENTI

di Camilla Pelosi

Fai un piccolo errore e tutto il mondo ti crolla addosso. Quante volte ci è capitato di mormorare questa frase, sconsolati di fronte alle mille insidie che costellano il cammino di ogni esistenza? Lo sa bene Ivan Locke, protagonista del monologo diretto e interpretato da Filippo Dini, in scena al Teatro Franco Parenti. Capo cantiere integerrimo, marito amorevole, padre esemplare; eppure basta la malinconia e l’avventatezza di una notte per mandare in frantumi l’impalcatura della vita di un uomo, per quanto solida essa possa apparire dall’esterno.

Lo spettacolo teatrale è tratto dal film Locke (2013), scritto e diretto da Steven Knight. Lo spettatore segue l’odissea moderna del protagonista mentre scappa dal paradiso artificiale della propria vita, attraverso un’autostrada immersa nella notte che lo porterà a Londra, dove lo aspettano una donna amata solo per poche ore e le conseguenze permanenti di quel gesto. Attraverso le telefonate febbrili del protagonista a personaggi che simboleggiano le istituzioni fondanti del suo piccolo mondo un tempo felice – famiglia e lavoro – possiamo ricostruire il caos nel quale egli si è ritrovato, suo malgrado. Una tragedia borghese, nella quale non possiamo non immedesimarci con un nodo in gola, senza cadere tuttavia in un nichilismo sterile che però si chiude con un commosso inno alla vita.

Abbiamo avuto modo di confrontarci con Filippo Dini, regista e interprete di questo potente spettacolo.

Nel corso della tua carriera, hai lavorato con zelo e passione tanto a teatro quanto nel mondo del cinema e della televisione: ti ricordiamo, solo pochi mesi fa, sul set della fortunata serie Rocco Schiavone. Qual è il tuo rapporto, rispettivamente, con lo schermo e con il palcoscenico? Adattare un film in un’opera teatrale è forse un modo per mettere a sistema le tue due grandi passioni?

In realtà, il teatro è la mia passione più grande, senza confronto rispetto mondi del cinema e della televisione. Sono nato così, la mia formazione mi ha spinto ad amare lo spettacolo dal vivo e il contatto col pubblico sopra ogni altro aspetto. L’esperienza con la televisione è sempre molto gratificante e divertente, allo stesso modo il cinema mi sta donando occasioni incredibili (quest’anno ho avuto la fortuna di lavorare con Toni Servillo ne L’uomo del labirinto, di Donato Carrisi), tuttavia ho meno esperienza in questi settori.

La scelta di Locke non è tanto legata alla ricerca di un contatto tra le due arti, quanto all’impatto che ha avuto su di me la vicenda narrata. Sono andato al cinema a vedere il film, sono uscito e ho pensato immediatamente: “Sarebbe bello vedere questa storia in teatro”. Nei progetti che intraprendo, ciò che mi spinge è quella che io chiamo la parola del poeta: il teatro deve sempre nascere dalla scrittura, dove per scrittura intendo la “struttura”, verbale e non, che sostiene la trama.

Locke  mi è parsa una drammaturgia straordinaria: si tratta di un monologo decisamente insolito e atipico. Io non ho mai avuto particolare simpatia per i monologhi, né come spettatore né come attore o regista: mi sembrano un’opera a metà tra il soliloquio e la confessione al pubblico. Qui, invece, ci troviamo di fronte a un monologo che non è rivolto al pubblico, ma al telefono! In scena c’è un uomo che dialoga continuamente con altre persone. La struttura drammaturgica è tanto originale quanto affascinante perché riesce ad aprire contemporaneamente molte storie diverse, ma tutte dipendenti da un singolo momento: la decisione di Locke di ammettere l’errore, che sconvolge la sua vita e quella di chi gli sta intorno.

Qual è la differenza, dal punto di vista della regia, tra l’adattamento a teatro di un’opera inizialmente pensata per il grande schermo rispetto al mettere in scena un testo scritto appositamente per il palcoscenico?

La differenza è che ci sono molte più notti insonni! Per un’opera drammaturgica, è la parola del poeta che deve essere sondata e compresa, attraverso lo studio della sua vita e di tutto ciò che ha scritto, con l’obiettivo di restituire nel presente quella produzione particolare, passando attraverso il punto di vista dell’autore. Nel caso dell’opera cinematografica, è assente il poeta di riferimento: egli si è già espresso, attraverso il prodotto fisico del film. Mi ha aiutato molto avere a disposizione la sceneggiatura scritta, così ho potuto approcciarlo e studiarlo come un’opera letteraria.

Gran parte della forza emotiva del film risiede nella fotografia, dinamica e avvolgente, e nelle inquadrature, strette e claustrofobiche. Che cosa hai escogitato per trasmettere questo effetto di “oppressione dinamica” a teatro, dove il mare aperto del palcoscenico non permette la mobilità di vedute offerta dalla camera da presa?

Abbiamo puntato su due elementi fondamentali: suono e luce. È stato uno degli spettacoli più difficili per me dal punto di vista sonoro: non abbiamo solo il rumore dell’auto che procede, ma anche i diversi suoni della strada (altri viaggiatori, ambulanze…) che accompagnano il viaggio lungo tutta la sua durata. Senza contare le voci al telefono inserite nei propri ambienti sonori, tutti trasmessi da casse diverse, che permettono allo spettatore di immaginare la vita che non vede aldilà della cornetta. Ci sono più di 400 effetti sonori, un lavoro immane per uno spettacolo teatrale! Per non parlare delle luci: cambiano in continuazione per infondere il senso del movimento, per accompagnare la macchina che fende il buio della notte.

I “grandi assenti” di quest’opera sono i personaggi dall’altra parte del telefono, che conosciamo soltanto nella misura in cui interagiscono con il protagonista durante il viaggio. Come dare spessore a personaggi “senza volto”?

Siamo partiti da ciò che ci proponeva il testo, ma il risultato finale si discosta un po’ dall’originale, perché risultano più divertenti, maggiormente caricaturali. Molto è stato affidato alle mani degli attori, che li hanno fatti propri in maniera personale e hanno enfatizzato le connotazioni che li definiscono e li rendono dei caratteri forti e indimenticabili: il capo arrabbiato, la moglie tradita, l’operaio confusionario… Abbiamo lasciato ampio spazio alla fantasia degli interpreti.

Potremmo concludere affermando che la parola chiave di questo spettacolo è “responsabilità”: non soltanto delle nostre scelte consapevoli, ma anche e soprattutto delle casualità inaspettate che ci riserva il destino. “Non è importante quale sia il problema, puoi sempre fare la cosa giusta” grida Locke al padre che lo ha abbandonato ancora bambino, al quale si rivolge nei momenti di vuoto tra una telefonata e l’altra.Nel momento storico in cui lo spettatore assiste a questo spettacolo, che cosa vorresti che ispirassero tali parole?

Mi ricordo di un magistrato che, quando gli chiedevano che cosa potessero fare i cittadini per contrastare la criminalità, rispondeva: pagando le tasse, non passando col rosso… Gesti semplici! Il richiamo alla responsabilità è l’unico strumento che abbiamo per garantire il vivere civile insieme. Quello che ci dice Locke è che la nostra condizione di esseri umani è quella di sbagliareNon siamo dei! E infatti questo è uno spettacolo senza dio: il divino non compare mai, né in aiuto né sotto forma di imprecazione. Questo non implica che si tratti di una storia senza speranza, ma semplicemente di una storia fatta di uomini. Il peccato, secondo la dottrina cattolica, esige un perdono da parte di Dio, ma qui egli è assente; il perdono dobbiamo chiederlo ai nostri simili, i quali a loro volta non sono che “portatori sani” di errori. Ognuno di noi, fin dalla nascita, è nella condizione di sbagliare; la cosa più umana che possiamo fare è quella di ammetterlo, nonostante ciò implichi uno sconvolgimento della propria e dell’altrui vita. Il dolore è inevitabile per generare il cambiamento. Dobbiamo sempre essere pronti a dire addio alla nostra vita di ieri, perché domani è il tempo della svolta.

Locke avrebbe potuto far finta di niente, salvando il proprio lavoro e il proprio matrimonio, ostacolando il cambiamento e condannando all’infelicità due innocenti (il suo bambino e la madre): avrebbe mantenuto la vita di tutti i giorni, ma la sua coscienza sarebbe stata persa per sempre.

Nel momento storico in cui questo spettacolo va in scena, ci troviamo di fronte a una situazione fuori dall’ordinario, una pandemia che ha sconvolto l’intero pianeta: mi auguro che chi riveste ruoli di responsabilità nel vivere sociale sia all’altezza della sfida, che ci siano persone straordinarie a far fronte allo straordinario!

Per ulteriori informazioni clicca qui

dalla sceneggiatura di Steven Knight
traduzione e adattamento di Filippo Dini
uno spettacolo diretto e interpretato da Filippo Dini
e le voci al telefono sono di (in ordine di apparizione):
interpreti – personaggi
Sara Bertelà – Bethan
Eva Cambiale – Moglie di Gareth
Alberto Astorri – Donal
Emilia Piz – Lisa
Iacopo Ferro – Sean
Mattia Fabris – Gareth
Mariangela Granelli – Katrina
Valentina Cenni – Sorella Margareth
Carlo Orlando – Davids
Giampiero Rappa – Dottor Gullu
Fabrizio Coniglio – Cassidy

scene e costumi Laura Benzi
luci Pasquale Mari
colonna sonora Michele Fiori (sistema audio in olofonia “HOLOS”)
regia del suono David Barittoni
aiuto regia Carlo Orlando

pittore scenografo Eugenio De Curtis
direttore di scena Riccardo Scanarotti
elettricista Gianni Gajardo
sarta Caterina Airoldi

produzione Teatro Franco Parenti/ Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia/ Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

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