di Mattia Rizzi
Professore di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab, Luciano Floridi è una delle voci più autorevoli del pensiero contemporaneo.
In occasione della pubblicazione del volume “Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale” (Raffaello Cortina Editore) – in libreria dal 6 febbraio – Luciano Floridi terrà tre lezioni dedicate all’infosfera organizzate dal Teatro Franco Parenti in collaborazione con Eni come partner unico.
Curiosi di sapere qualcosa di più sul relatore e a caccia di riflessioni stimolanti, noi di Sik-Sik lo abbiamo intervistato.
La sua formazione e la sua carriera accademica si dividono tra Italia e Regno Unito. Pregi e difetti delle due realtà universitarie?
La comparazione è un po’ difficile, perché si tratta di due sistemi molto diversi, un po’ come paragonare mele e arance, per usare un’espressione inglese. Si pensi alla lingua, e quindi alla facilità di internazionalizzazione; al modello di finanziamento, interamente statale in Italia, ma a larga partecipazione privata in Gran Bretagna; o alla strategia politico-sociale di fondo, con un sistema di educazione di massa da un lato, e uno molto più elitario dall’altro. Tenendo a mente fattori come questi, direi che, per il mio percorso, i pregi del sistema britannico sono la competizione, la meritocrazia, e l’efficienza (soprattutto burocratica). Non significa che gli scansafatiche, i raccomandati, e le scartoffie non ci siano anche qui, ma diciamo che è normale che chi lavora molto e bene sia alle lunghe premiato. I difetti sono i costi, a volte socialmente iniqui, una competizione che può diventare esagerata, e da quest’anno la mancanza di legami solidi con l’Europa (l’università ha inutilmente votato in massa contro Brexit). Purtroppo, tutti e due i sistemi universitari sono meccanismi inceppati per quanto riguarda la mobilità sociale. Se dovessi scegliere un principio solo per migliorare entrambi partirei da questo.
In una società sempre più digitalizzata, quale dovrebbe essere il ruolo della filosofia?
La filosofia può essere intesa in tanti modi, alcuni sciocchi o oscuri, altri geniali o illuminanti. Per quanto mi riguarda, credo che la filosofia oggi sia chiamata a soddisfare una profonda esigenza di idee e quadri concettuali che permettano sia di capire come noi e il mondo che ci circonda stiamo cambiando, sia di tracciare le linee di quelli che potrebbero essere gli sviluppi preferibili di questo cambiamento. Mi trovo quindi a dissentire con chi pensa che la filosofia sia solo analizzare, commentare, criticare, decostruire, insomma fare domande, perché la filosofia che sopravvive alla prova dei tempi è quella che anche sintetizza, costruisce, genera nuove idee, spiega, insomma offre risposte. La filosofia non è una pianta parassita, che vive e cresce sfruttando il capitale semantico generato da altri saperi. Ma non è neppure una pianta solitaria. È una pianta che vive in una sana relazione simbiotica di mutuo vantaggio con altri saperi, dai quali è rafforzata e ai quali contribuisce con la sua capacità di dare senso alle cose, rispondere alle domande aperte e progettare il possibile. Per questo definisco la filosofia come design concettuale. Oggi il design concettuale di cui abbiamo bisogno ci deve aiutare a capire e indirizzare la rivoluzione digitale, e a renderla parte della soluzione della gravissima crisi sociale e ambientale che stiamo attraversando. Deve dare contenuto al progetto umano del ventunesimo secolo. Si tratta di un design concettuale consapevole del passato ma aperto all’innovazione futura. Non si tratta di una filosofia applicata o pratica, ma di una filosofia teoretica del proprio tempo per il proprio tempo, che sia, come avrebbe detto Nietzsche, «unzeitgemäße», ma nel senso di “unfashionable”, cioè che non segua la moda accademica, non nel senso di “timeless”, come se la filosofia dovesse essere buona per tutte le stagioni, inconsapevole e disinteressata delle circostanze storiche in cui opera. La filosofia come design concettuale è “inattuale” perché coglie le nuove invarianti, non perché è irrilevante. E la nuova invariante oggi è la transizione storica da una realtà interamente analogica ad una sempre più anche digitale.
In che modo vive il suo rapporto col mondo digitale? Ha delle dipendenze inconfessabili?
Siccome il digitale è ciò di cui mi occupo professionalmente, si tratta di un rapporto quotidiano molto stretto, non solo da utente, ma anche da filosofo che cerca di stare con gli occhi aperti. La dipendenza personale è forse trasversale: mi piace molto l’efficienza che il digitale può offrire, come l’app che mi permette di fare la spesa al supermercato più facilmente. Questa dell’efficienza digitale è anche una passione (se non una dipendenza) e non solo una scelta razionale, perché a volte mi rendo conto di perdere più tempo per cercare di fare meglio e “risparmiare tempo” con una soluzione digitale di quanto non ne impiegherei nel fare le stesse cose senza il digitale. L’efficienza a volte è solo una scusa per divertirmi a usare il digitale e imparare cose nuove.
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Teatro Franco Parenti e Eni presentano
Pensare l’infosfera
Tre lezioni con Luciano Floridi
In occasione della pubblicazione del volumePensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, Raffaello Cortina Edi
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