L'”ISTRUTTORIA” DI PETER WEISS: IL VALORE DELLA MEMORIA COME PASSAGGIO DI TESTIMONE

di Camilla Pelosi

Il foyer del teatro Franco Parenti non mi è mai apparso così vivo e brulicante di fervore artistico come nel pomeriggio di questo giovedì. Appena entrata, subito ha catturato la mia attenzione una fila ben ordinata di giovani, impegnati a scandire, corrucciati e decisi, il loro atto di accusa contro i crimini del nazismo. Sono i ragazzi del gruppo teatrale del Liceo Manzoni, più qualche ex-manzoniano ancora fresco dall’esperienza liceale, colti nel bel mezzo delle prove de “L’Istruttoria”, celebre opera di Peter Weiss basata sulle sedute del processo di Francoforte contro un gruppo di SS e di funzionari del Lager di Auschwitz. Nelle 183 giornate di processo, tenutosi a Francoforte sul Meno tra il 10 dicembre 1963 e il 20 agosto 1965, vennero ascoltati 409 testimoni, 248 dei quali sopravvissuti al campo di sterminio. L’intera drammaturgia è molto aderente alle parole realmente pronunciate nell’aula del tribunale.

Gli studenti sono seguiti da Monica Barbato, attrice e formatrice teatrale professionista che si occupa del laboratorio. Gira tra loro con sguardo vigile guidandoli e curando in primo luogo ciò che sarà il fulcro di questo spettacolo: la potenza emotiva della parola.

Il progetto nasce dalla volontà della regista e anima del Teatro Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah, dal sostegno del Memoriale della Shoah di Milano e dal coinvolgimento di alcuni istituti superiori della Lombardia. L’obiettivo finale consiste nella creazione di uno spettacolo a cui  il Teatro Franco Parenti contribuisce con i suoi attori e le sue maestranze di altissima professionalità, e che avrà luogo nel teatro stesso e negli spazi del Memoriale, simbolo della deportazione degli ebrei e di tutti coloro che sono stati perseguitati nei campi di concentramento e di sterminio.

Non si tratta di un testo facile, tutt’altro. Si articola in undici canti, ciascuno dei quali è dedicato alla descrizione di un peculiare aspetto della detenzione nel lager: una spirale infernale tutta terrena, che colpisce dritto allo stomaco con la disarmante durezza della verità. Dante non è solo un archetipo letterario, ma anche un preciso riferimento etico, nel contesto in cui l’opera ha avuto origine quanto in quello attuale: la selva oscura, la perdita di punti di riferimento e la crisi dei valori ci porta allo smarrimento oggi come allora, perché nell’infinito ripetersi della storia ogni momento di transizione si affaccia sul vuoto e la “diritta via” non può dirsi imboccata una volta e per sempre, ma richiede un continuo, costante, vigile passaggio di testimone. Proprio la ritualità come monito imprescindibile è fondamentale in questo progetto, articolato su base triennale. Pronunciare ad alta voce le parole dell’accusa è il modo migliore per interiorizzarla a pieno e per poi ripeterla, ancora e ancora, con immutata fermezza.

Chiedo a Monica se posso fare due chiacchiere coi suoi ragazzi e mi accontenta subito. Ci sediamo in cerchio e colgo la complicità che li attraversa, un sentimento raro da trovare tra i giovani nel mezzo del travaglio adolescenziale e che può venire fuori solo da un’esperienza comune così forte. Quando mi raccontano del loro lavoro sono tutti partecipi ed entusiasti e l’intervista si trasforma in una condivisione corale: insieme giudici, insieme testimoni.

Non sono attori alle prime armi: alcuni facevano già parte del gruppo di teatro classico del liceo, altri della recitazione ne hanno fatto una scelta di vita, proseguendo, finita la scuola, nella “Non-scuola”, laboratorio teatrale facente capo alla compagnia del Teatro delle Albe di Ravenna. Hanno quindi un’esperienza alle spalle sulla quale fare riferimento e quando chiedo loro se ritengano il teatro uno strumento di apprendimento a pieno titolo, non hanno dubbi al riguardo. “La storia non è una più scritta su un pezzo di carta” dichiara una giovane testimone “Nel momento in cui si interpreta un personaggio che ha vissuto determinati orrori, è inevitabile essere coinvolti emotivamente e così si ha la capacità di coinvolgere anche gli altri”.

Mi spiegano che la rappresentazione ha assunto un valore personale per ciascuno di loro. Non c’è stata nessuna imposizione dall’alto sul significato dell’opera ma, attraverso la guida degli insegnanti, si è lasciato che questa parlasse da sé, senza inutili orpelli ad attenuare l’impatto del vero. Dopo una lettura personale del testo, tutti insieme hanno riflettuto sull’intenzione e sull’interpretazione relativa alle singole parole presenti nella pièce. “E’ un testo molto particolare” spiega un’altra attrice: “è senza punteggiatura, perciò il lavoro dell’attore consiste nel cercare la propria intenzione quando si recita una battuta. A seconda di dove si mette l’accento cambia il messaggio, e quindi l’emozione, trasmessa al pubblico”.

Lascio i ragazzi al loro lavoro e mi avvicino a Monica, pilastro portante di questo laboratorio, tanto che i suoi allievi la definiscono una vera e propria guida spirituale. Nel mentre, si riversa in sala una masnada di bimbi scatenati: sono i testimoni più piccoli che vedremo sul palco, dalla Scuola Primaria Giuseppe Giusti. Con questo allegro cicaleccio di sottofondo, le faccio qualche domanda sull’iniziativa.

L’Istruttoria è sicuramente un testo molto forte e complesso, la cui scarna durezza richiede un grande sforzo interpretativo. Come è stato lavorare con attori così giovani e non professionisti? La loro inesperienza può costituire un ostacolo all’espressione della potenza emotiva o piuttosto aggiunge un tocco di autenticità?

Monica Barbato: “Trovo che lavorare con dei ragazzi adolescenti sia stata una bellissima intuizione. Per me i ragazzi giovani devono essere i portatori di questa testimonianza, l’idea di far rivivere in loro le parole, gli atti di un processo, aldilà della loro bravura nello stare in scena, costituisce un tocco emotivo molto forte. Può essere anche più potente che vederlo fare da dei professionisti: l’ingenuità arricchisce e rende sempre fresco un messaggio di portata universale. Per me è fondamentale il passaggio di testimone e non c’è strumento più adatto che il teatro perché il messaggio passa letteralmente attraverso il corpo, nelle viscere, prima di raggiungere l’altro.” 

I ragazzi sono stati guidati nell’interpretazione del testo? Se sì, come?

Monica Barbato: “Non avrebbe avuto senso intervenire dall’esterno come regia, perché si rischiava di “uccidere” questa freschezza, che è proprio il valore aggiunto dello spettacolo. Dopo una prima lettura, ci siamo confrontati tutti assieme e ci siamo chiesti come poter comunicare il contenuto di questo testo. Non essendoci punteggiatura nel testo, il giudice fa delle domande ma mancano i punti interrogativi: come stabilire se si tratta di affermazioni? Sicuramente il valore delle parole doveva essere plasmato di chi l’avrebbe poi pronunciato in scena, altrimenti non sarebbero potute diventare vive e comunicative. Abbiamo aperto in loro la via dell’interpretazione, per vedere con il loro sguardo il mondo e nutrirci di esso.”

L’obiettivo di questo progetto è quello di essere ripetuto ogni anno, in occasione della Giornata della Memoria. Che ruolo ha la ritualità nell’assumere consapevolezza del nostro passato? Come evitare che la ripetizione perda il suo autentico significato e si tramuti in una sterile formalità?

Monica Barbato: “Di fronte a una storia che sembra ripetersi, ripetere in risposta i nostri valori sembra oggi più che mai necessario. La chiave vincente per preservarne l’autenticità è proprio rivolgersi ai giovani: la gioventù è di per sé innovativa e il compito delle nuove generazioni è proprio quello di farsi carico, a modo proprio, della memoria, di attualizzarla per sé e per gli altri. Quando si lavora con degli adulti, inevitabilmente più smaliziati, è più facile cadere nella trappola del “già visto e non colpire nel segno. Alcuni Canti si chiudono proprio con questo senso: un imputato non riesce a continuare il proprio discorso, dichiara di non riuscire a ricordare. In questo modo, sono i ragazzi che rivolgono al pubblico la domanda: è proprio vero che non riusciamo a ricordare? Forse ci servono solo parole nuove per preservare il messaggio di ieri, forse ci dobbiamo ricordare.”

Qual è stato il maggiore ostacolo incontrato durante il progetto e quale, invece, il risultato più soddisfacente?

Monica Barbato: “La difficoltà principale è costituita sicuramente dalla complessità del progetto: sarà uno spettacolo itinerante e dovremo coordinare contemporaneamente tanti ragazzi, anche molto giovani. Abbiamo lavorato molto sulla gestione di tempi e spazi, in modo da realizzare un’armonia tra i diversi passaggi. Ciò che mi ha maggiormente colpito in maniera positiva, invece, è il profondo impegno e serietà che hanno dimostrato tutti. Si sono assunti la responsabilità che abbiamo loro affidato e la più grande soddisfazione è vedere la passione con cui l’hanno fatto.”

E noi, destinatari ultimi di testo e interpretazione, da quale intenzione ci facciamo guidare nella “selva aspra e selvaggia” della nostra epoca? Interrogativo complesso e al quale da soli facciamo fatica a trovare una risposta. Ma se così non fosse, che senso avrebbe andare a teatro?

Per maggiori informazioni clicca qui

ideazione Andrée Ruth Shammah
con il sostegno del Memoriale della Shoah di Milano

Canto I e II
coordinamento registico Benedetta Frigerio
laboratori condotti da Monica BarbatoAlberto Mariotti
con IIS Falcone Righi di Corsico, Liceo Linguistico Marconi di Milano, Liceo Classico Manzoni di Milano (allievi e ex-allievi)

Canto IX, X e XI
coordinamento registico Federica Santambrogio
direzione musicale Pilar Bravo
laboratori con Liceo Classico Beccaria di Milano, Liceo Artistico Candiani di Busto Arsizio
coro di alunni della Scuola secondaria di primo grado Alessandrini di Milano, della Scuola Primaria Giusti di Via Palermo Milano, e del coro di voci bianche Op.64

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