di Luka Bagnoli
Mario Martone porta in scena Tango glaciale reloaded. Il rinnovamento della rivoluzionaria pièce del 1982 cattura e seduce in una fantasmagoria di colori, forme e musiche senza tempo.
Da quando Tango glaciale ha solcato il palco per la prima volta sono passati diversi anni, tuttavia è impossibile negare che si tratti di uno spettacolo invecchiato benissimo, tanto che verrebbe quasi da domandarsi se, piuttosto, non sia la sperimentazione teatrale ad essere rimasta sostanzialmente immobile. Il lavoro dell’allora giovane regista Martone, nato in seno al gruppo Falso Movimento, si presta magnificamente alla critica ed all’esaltazione della contemporaneità, in quello che si potrebbe definire un “ritorno al futuro”.
I giochi di luce, psichedelici al limite dell’epilessia, irradiano la scena e chi la abita: una casa viene percorsa attraverso tutte le sue stanze da tre personaggi a dir poco vintage, tra canzoni e coreografie in perfetto stile videoclip di Michael Jackson. Nel ricco comparto scenografico, costituito da proiezioni di video e non solo, spiccano svariati riferimenti alla cultura pop, come fondali ispirati ai fumetti ed immagini che ricordano certi titoli di testa dei film di James Bond. Tutti gli elementi sono perfettamente integrati tra loro e collaborano, come nella celebre sequenza del giardino, ad una sfrenata spettacolarità visiva.
Poche frasi e per lo più incomprensibili o apparentemente sconnesse fluiscono in un pastiche linguistico degno delle migliori avanguardie; la recitazione un po’ sporca ed esagerata è amplificata da microfoni, in un’atmosfera a metà tra il concerto dal vivo e la discoteca. In questa epopea postmoderna ce n’è un po’ di ogni, ma, del resto, non sono forse l’abbondanza di stimoli ed il bombardamento mediatico cifre della nostra epoca?
Il movimento, principale fulcro di tutta l’esperienza, si propaga dalla musica alla scenografia, fino a “contaminare” i corpi degli attori. Attraverso la ripetizione dei gesti, come in un loop, la prigionia della quotidianità frenetica viene messa a nudo e la nudità stessa dei performer, in alcune scene, appare come una liberazione, come l’unica prova della presenza umana in un mondo asettico di manichini in plastica.
Un saxofono cala dall’alto: è la malinconia, vissuta dai protagonisti in differita nel corso di due assoli; il primo, a metà della rappresentazione, è un timido accenno alla frustrazione profonda che con il secondo anticipa di poco la chiusura del sipario. Quello strumento, apparso dal nulla, annuncia la fine dell’illusione e l’inizio della coscienza, per quanto dolorosa; è un oggetto misterioso, per quanto ne sappiamo potrebbe essere rotto e muto: ne siamo attratti.
E che meraviglia una platea intera che batte le mani al tempo della musica, all’unisono, mentre le luci si riaccendono; le file si diradano e ci si accalca verso l’uscita, chi battendo i piedi e chi agitando le mani… Nessuno voleva smettere di ballare.
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progetto, scene e regia Mario Martone
riallestimento a cura di Raffaele Di Florio e Anna Redi
elaborazioni videografiche Alessandro Papa
con Jozef Gjura, Giulia Odetto, Filippo Porro
interventi pittorici/design Lino Fiorito
ambientazioni grafiche/cartoons Daniele Bigliardo
parti cinematografiche/aiuto–regia Angelo Curti, Pasquale Mari
elaborazione della colonna sonora Daghi Rondanini
costumi Ernesto Esposito
testi Mario Martone, Tomas Arana, Lorenzo Mango, Saffo, Bow Wow Wow, Joseph Beuys, Der Blau Engel
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Fondazione Nazionale della Danza/Aterballetto
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