Il testo immortale dell’Antico Testamento viene raccontato dalla voce di Elia Schilton, dalla musica di Irina Solinas e dal corpo dei danzatori Halnaut, Girotto e Cozzi. Al Franco Parenti dal 7 al 20 Febbraio un lamento che viene dal passato ci farà riflettere sull’essenza eterna dell’uomo.
“Vai cercando qua, vai cercando là, ma quando la morte ti coglierà che ti resterà delle tue voglie? Vanità di vanità.” Branduardi canta così, ispirato dalle prime parole del Qohélet. Anche lo spettacolo in scena al Parenti si apre con un canto sommesso, ma allo stesso tempo solenne, in ebraico perché è questa la lingua in cui è stato scritto il Qohélet, in greco Ecclesiaste, nel IV o III sec a.C da un autore che afferma di essere il re Salomone.
Elia Schilton, attore di origine ebraica nato ad Alessandria d’Egitto, dà voce e corpo a questo testo antico e misterioso, ma che parla al cuore dell’uomo con un linguaggio universale e devasta con la propria attualità.
La sala è avvolta da un fumo pesante, quasi come una nebbia; quando il pubblico entra, la scena è tranciata da sottili colonne di luce, l’unica presenza è Irina Solinas, musicista che si è esibita su palchi prestigiosi, vestita di bianco, che abbraccia il violoncello, seduta al centro di una pedana circolare. Ci sono due sedie, su una è seduta lei, immobile ora che c’è ancora silenzio.
Sull’altra siederà Elia Schilton, vestito di nero, con una Bibbia tra le mani; entra in scena come emergendo dal buio, intonando un canto ritmato come una nenia, accompagnato da tre danzatori (Sebastien Halnaut, Gianmaria Girotto, Alessandra Cozzi) che accompagneranno con l’intensità dei loro movimenti la forza dirompente della parola.
Schiton si siede, le spalle schiacciate contro quelle della Solinas e insieme danno inizio a quel dialogo di parole e musica che continuerà fino alla fine.
Il protagonista indiscusso è il testo del Qohélet, qui nella versione di Guido Ceronetti, scrittore e giornalista che non ha mai smesso di confrontarsi con quello che definí “libro assoluto”.
Sono parole violente, potenti e affilate quelle di questo testo che parla dell’uomo e della sua fragilità di fronte all’abisso dell’incomprensibilità dell’esistenza.
Perché uomini malvagi trionfano e uomini giusti soccombono? A cosa serve patire o gioire se alla fine ci accomuna la morte? Tutto è fumo, nient’altro che fumo. Solo vanità.
Alla fine, rimane un’unica certezza: Dio, perché è a lui che ritorna il soffio di vita che ti è stato donato. Allora, forse, vale la pena impiegare le proprie forze per dargli valore.
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