di Beatrice Salvioni
Dario D’Ambrosi porta la follia al Franco Parenti. Dall’11 al 16 Dicembre dimenticatevi di stare tranquilli sulle vostre poltrone perché quando un matto vi guarda negli occhi vi fa vedere un po’ di voi stessi.
C’è uno scrittore che parla dei pazzi, è Edgar Allan Poe che scrive: “Divenni pazzo con lunghi intervalli di orribile sanità mentale”.
C’è un cantante che parla dei pazzi, è Simone Cristicchi che canta: “I matti siamo noi quando nessuno ci capisce”.
E poi c’è un attore che il pazzo lo fa, è Dario D’Ambrosi, fondatore del Teatro Patologico di Roma, che da più di trent’anni lavora sulla follia e con la follia creando spettacoli che si radicano nell’intento di “rendere dignità al matto” sia nella tematica che nell’azione scenica.
Entra in scena defilato, quasi per caso, indossa un pigiama, un camice bianco e un paio di pantofole, in mano una gabbietta per uccelli, vuota. “Come stai?” chiede a uno spettatore delle prime file che, stordito, dice: “Bene”. “Io una merda” risponde.
D’Ambrosi cammina con passo strascicato, si infiltra tra gli spettatori, chiede una sigaretta, una stretta di mano. Il confine tra pazzia e normalità diventa sempre più labile in questo dialogo forzato, surreale. “Anche tu la senti la vocina nella testa? Perché io la sento e non riesco a farla stare zitta”
La prima parte dello spettacolo si improvvisa, si costruisce insieme agli spettatori che, riluttanti, presi alla sprovvista, dialogano con questo matto che li interpella, chiede di essere guardato negli occhi, di essere ascoltato. “Se mi vedessi per strada cambieresti marciapiede, vero?”
Si ride di quel matto che non ha un posto nel mondo e che chiede: “E adesso dove vado?” Si ride insieme a lui degli altri, di noi, perché in fondo nemmeno noi a quella domanda siamo ancora riusciti a dare una risposta.
Poi quel matto senza nome dice a qualcuno di tenergli la gabbietta, di badare al suo amico che non c’è perché non è più il momento di ridere, ora è il momento di ricordare. Racconta degli amici di un tempo, quelli che erano con lui nel manicomio e che adesso non ci sono più perché qualcuno ha chiuso quella che è sempre stata la loro casa e loro sono stati mandati fuori in un mondo che non li vuole.
E dove sono andati tutti? Non ci sono. Nemmeno Masino, l’amico che con il nostro matto ci ha passato la vita e a cui un giorno i medici hanno deciso di aprire la testa per vedere da dove arrivavano quelle quarantanove voci che non stavano mai zitte.
Quello che D’Ambrosi porta in scena è uno spettacolo che si porta addosso il peso di quarant’anni di storia, la stessa età della legge Basaglia, ma che è leggero, troppo lieve perché gli si possa posare sopra la polvere. Resta ancora oggi intenso e vivo grazie anche all’esperienza di Dario D’Ambrosi che lavora da una vita insieme a ragazzi con disabilità mentale e crea insieme a loro trasposizioni teatrali di grandi classici con la missione di esplorare la loro condizione e di scoprire nella follia l’essenza della natura umana.
In collaborazione con l’Università degli studi di Roma “Tor Vergata” è stato avviato anche un corso universitario di formazione sperimentale aperto a studenti che intendano specializzarsi nel campo della terapia teatrale dei disturbi mentali e a giovani affetti da disabilità mentale per consentire loro di integrarsi in un contesto teatrale e da qui alla società.
Il teatro di Dario D’Ambrosi è originale, scomodo, fuori posto, un po’ come lo sono i matti.
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