di Elena Clementi
Si è appena concluso il lungo weekend che ha visto in scena al teatro Franco Parenti la compagnia Fanny & Alexander in Storia di un’amicizia, spettacolo tratto dalla tetralogia L’amica geniale di Elena Ferrante, racconto di un’amicizia profonda e tormentata che dopo aver ottenuto un enorme successo letterario ora approda in teatro e presto sarà anche una fiction televisiva.
Lo spettacolo, diviso in tre atti (Le due bambole, Il nuovo cognome, La bambina perduta), racconta l’amicizia tra Elena Greco (Chiara Lagani) e Lina Cerullo ( Fiorenza Menni), che, iniziata quando le due erano bambine e vivevano in un rione di Napoli pieno di violenza e contraddizioni, dura tutta la vita, accompagnandole durante la loro crescita e maturazione, influenzandone sentimenti e modi di fare, creando grandi strappi e decisi riavvicinamenti tra di loro.
Fin dal primo atto risulta evidente la corrispondenza tra le parole del romanzo e quelle pronunciate dalle attrici, gli elementi di straniamento dal testo, infatti, non sono verbali, bensì gestuali e vocali. Risulta molto interessante, quindi, cercare di analizzare la drammaturgia con la quale viene data vita alle parole sul palco.
Lo spettacolo prevede diverse forme innovative di compenetrazione tra il teatro che potremmo definire tradizionale, fatto di voce e presenza dell’attore, e quello di più recente apparizione, che accoglie copiosamente le nuove tecnologie audio/video e illuminotecniche, creando un connubio che, però, rischia a volte di confondere lo spettatore restio a quel genere di rappresentazione teatrale che sfocia nell’operazione concettuale.
Le interpreti si servono, ad esempio, di un dispositivo, già utilizzato dalla compagnia in precedenti spettacoli, detto di eterodirezione, che prevede l’uso di microfoni e auricolari, che danno loro in tempo reale indicazioni testuali e gestuali, come se tramite un’impronta vocalica, un tono o una postura, un personaggio si impossessasse all’improvviso di loro.
Questo aggiunge sicuramente qualcosa in più alla recitazione, infatti, tramite questo strumento, lo spettacolo, per quanto recitato a due sole voci, si fa teatro corale, contiene più tonalità, ascrivibili alle diverse età delle protagoniste, prima bambine poi adulte, alle bambole, che diventano veri e propri personaggi con voci stridule, acute, quasi spettrali, ma anche alle altre figure presenti nel romanzo, facendosi contenitore delle mille parlate e accenti che le caratterizzano. Allo stesso tempo, però, priva lo spettatore della possibilità di ascoltare le voci delle attrici non alterate dai microfoni, bensì amplificate dall’acustica del teatro e dalla sola tecnica interpretativa, ancor più nei momenti in cui le voci delle attrici arrivano dal retroscena e si ha la netta sensazione siano registrate.
La pièce segue per tutta la sua durata una partitura musicale e sonora (firmata Luigi De Angelis, Tempo Reale/Damiano Meacci) che cerca di rendere concretamente la componente inenarrabile della vicenda, di rievocare le atmosfere e le situazioni narrate, i sentimenti contraddittori che caratterizzavano i personaggi, nonché i contesti, storici e locali, in cui le vicende sono ambientate, cioè Napoli e le altre città abitate in seguito dalle protagoniste come Torino e Firenze nella seconda metà del secolo scorso.
Tramite questi suoni, queste voci, questi rumori meccanici, lo spettacolo riesce in effetti a restituire l’universo sonoro del romanzo e a evocare scenari lontani nel tempo e nello spazio.
A questo si aggiunge un ricorso frequente al video, che è fatto di spezzoni di vita quotidiana della metà del ‘900, di foto in bianco e nero, ritratti di donna, nonché di proiezioni ingrandite e rimpicciolite delle sagome delle stesse attrici che si muovono sul palco.
Tutti questi frammenti si ricompongono nell’immaginario dello spettatore fino a creare progressivamente una sorta di quadro vivente, di mappa del tempo che passa con lo scorrere della storia che è la vita delle due protagoniste, arrivando a comporre un quadro di riferimento in cui collocarle. Il ricorso a questi contributi risulta molto efficace, tuttavia è probabilmente un po’ abusato e rischia di annoiare e distrarre il pubblico in certi momenti dello spettacolo.
Anche la scenografia è dedicata completamente a queste tecnologie che se ne appropriano attraverso il grande schermo che fa da fondale, circondato solo da quinte nere, e i grandi riflettori, che sembrano piuttosto cinematografici e che ingombrano i lati sinistro e destro del palco, verso cui le attrici spesso si rivolgono risultando illuminate di luci molto forti, ora fredde, ora calde.
Anche la recitazione delle attrici segue il ritmo, sempre incalzante, delle musiche e dei suoni di sottofondo di cui si è parlato, sia con la grande varietà di voci, come si diceva, ma anche con una grande gestualità. Le parole sono accompagnate per tutto lo spettacolo da una ripetizione, quasi maniacale, ossessiva, di gesti a esprimere i sentimenti contrastanti che attraversano le due protagoniste nel corso della loro esistenza. I gesti si ispirano liberamente alle coreografie di Pina Bausch, Maurice Béjart, Trisha Brown, Anna Teresa De Keersmaeker, come le stesse attrici dichiarano, e sono perlopiù gesti meccanici, essenziali, come lo spostamento continuo di un piede o di una mano dal basso verso l’alto, ma fortemente espressivi, legati soprattutto alla sfera emotiva dell’agitazione, della paura, dell’insicurezza. Il ricorso alla gestualità costituisce davvero una parte essenziale, nonché preponderante dello spettacolo, la ricerca e lo studio sul movimento è quasi tale da trasformare lo spettacolo in una rappresentazione di teatro-danza.
La pièce percorre tutta la storia narrata da Elena Ferrante nei suoi romanzi, procedendo naturalmente per salti, ma toccando tutti i punti salienti, dall’inizio, con la sfida delle bambole gettate nello scantinato, alla fine, con il racconto della scomparsa della figlia di Lila.
Risultano abbastanza criptici e inquietanti i momenti in cui le attrici impersonano le bambole recitando brani scritti dalla stessa Chiara Lagani e ispirati a testi di Frank Lyman Baum, Toti Scialoja e Wislawa Szymborska, in cui emergono i riferimenti all’immaginario infantile e al tema della morte cari alla compagnia.
Molto più coinvolgente, invece, il momento in cui le attrici scendono nel pubblico, al buio, intente a cercare le bambole perdute, come fanno le due protagoniste della storia nello scantinato di Don Achille.
Menzione speciale meritano i costumi, molto eleganti e raffinati nella loro semplicità ricercata, nelle loro linee pulite dal gusto retrò, che si adattano perfettamente al tempo in cui la storia è ambientata, ma anche ai movimenti ampi e intensi delle attrici.
In conclusione, uno spettacolo evidentemente studiato e costruito con cura, ma che nell’insieme non risulta perfettamente riuscito, soprattutto a causa dell’eccessiva lunghezza e della debolezza del primo atto, seppure seguito dai sicuramente migliori atti successivi.
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