di Matteo Resemini
Fino a domenica 21 ottobre, la compagnia Kepler-452 mette in scena il suo Giardino dei ciliegi. Alla base un capolavoro che serve come denuncia. Čechov si rivolta nella tomba e arriva a Bologna. Come? Scopritelo.
Ebbene sì, lo hanno fatto di nuovo! Hanno nominato il nome di Čechov invano, e lo hanno invocato attraverso la sua opera più celebre e affascinante: Il giardino dei ciliegi. Peccato che qui i ciliegi sono già stati segati via; il drammaturgo russo non c’entra molto con la storia parallela e lontana – nello spazio e nel tempo – con i moderni Ljuba e Gaev, i coniugi bolognesi Annalisa e Giuliano Bianchi, sfrattati dopo trent’anni dalla propria casa. Ecco dimostrato il motivo della “felicità in comodato d’uso”. Una coppia stravagante che indossa la pelliccia, pur amando e accudendo gli animali di ogni tipo e razza, inclusi falchi, cavalli, mucche, leopardi, pappagalli e Co.
Uno sperimento di pura metateatralità, intriso certamente di riscoperta umanità, ma anche di numeri circensi che incensano disparate e numerose problematiche del nostro tempo.
L’intenzione a priori della compagnia Kepler-452, composta ora dal regista e interprete Nicola Borghesi, Paola Aiello e il cantante de Lo Stato Sociale Lodovico Guenzi, il biondo che intona e spera “una vita in vacanza”, è quella di aprire da un lato le porte del teatro a un pubblico nuovo, meno incline al purismo ben recitato e rispettoso della tradizione dei classici, un pubblico più paziente agli sperimenti, soprattutto quelli che fondono realtà biografiche e finzioni sceniche, miscelate con un mixer di non professionisti, che non hanno nulla da raccontare se non di loro stessi.
Sono solo i protagonisti e, citando Durrell, i loro “altri animali”, a sorprendere per la tenera interpretazione e la resilienza alle disdette della vita; non sorge pietà o compassione, ma vicinanza e ammirazione. Prima di resistere occorre esistere, a prescindere da tutto e da tutti, e i coniugi Bianchi esistono perché sono fedeli a loro stessi e la loro cangiante simpatia, aspra a volte, aspetta di essere interrogata fino a domenica 21 nella Sala Tre del Teatro Franco Parenti.
La compagnia in sé è un gruppo di persone buone che sanno anche vestire i panni degli attori filantropi. La vicenda ideata, nella rossa Bologna, è curata per ironia della sorte da un… Borghesi, ed è raccontata a incastro; benché ci siano troppe digressioni, i soliloqui sul finale sono disarmanti.
Invero il gruppo è sì coeso, ma fin troppo caotico, sensorialmente parlando, un po’ troppo azzuffato. Ma forse occorre questo discernimento dalla normalità e dalla tranquillità, per ricreare un regno di ricordi che sono sensazionali e strambi.
Anche se un comune intima lo sfratto da una casa colonica, non si può sfrattare un’anima innocente da un corpo forte e coraggioso: questo in soldoni è l’epimitio che si può estrapolare dalla vicenda.
La scena rimane sempre aperta, anche quando si entra e si esce dalla sala, aperte sono le possibilità di un futuro nubivago e traballante per Annalisa e Giuliano, che regalano una storia che profuma di civiltà e di rimpianto.
Quando le vite semplici incontrano il teatro, vengono fuori spettacoli come questi.
L’arca di Noè è stata distrutta, non ci sono colombe che annunciano la pace, e neppure, si spera, “I gabbiani” di un Čechov riesumato male.
Una pièce carina.
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