di Roberta Maroncelli
Valerio Magrelli, poeta, traduttore e professore di letteratura francese presso l’Università di Cassino, venerdì 1 dicembre al TFP, sarà protagonista di un incontro dedicato alla poesia italiana. Sulla scia del suo libro Millennium poetry. Viaggio sentimentale nella poesia italiana (2015), Magrelli si accosta alla letteratura italiana con l’occhio dell’amateur, dell’appassionato e – mi verrebbe da dire – dello straniero che guarda curioso all’Italia come il paese de La dolce vita di Fellini. Ne abbiamo parlato insieme durante la nostra intervista, che si è rivelata una bellissima promenade letteraria, guidata dalla sua voce avvolgente nella bellezza della parola.
Lei è professore di letteratura francese, cosa l’ha motivata a scrivere questo libro sulla poesia italiana?
Guardi, è un tema per me delicatissimo, perché riguarda uno dei punti centrali di alcune mie polemiche sulla situazione culturale italiana: la mancanza di competenza. Come molte cose, questo lavoro è nato in maniera casuale e finiva proprio per sfidare il pricipio della competenza: insegno letteratura francese da ventinove anni, con che diritto, quindi, oso parlare di letteratura italiana? Non chiederei mai a un cantautore di fare la guida alpina, non capisco come mai chiunque si senta autorizzato a scrivere di letteratura – non chiacchierando, si badi (cosa auspicabile e splendida), ma scrivendo. Per questo motivo, ho voluto mettere le mani avanti cercando di difendermi con un sottotitolo che recita Viaggio sentimentale. Insomma, la mia antologia non vuole essere uno studio, ma una proposta che viene da un dilettante. Un tempo c’era questa bella espressione: l’amateur, no? Ecco, farei mia questa definizione: qualcuno che si appassiona e propone cose. Mi piace, in forma d’omaggio, dedicare riflessioni a un tema che esula dalla mia professione. In questo caso l’omaggio è al Viaggio sentimentale di Laurence Sterne. Il sommo maestro lo realizza in forma spaziale-geografica, io in forma letteraria.
E perché ha scelto questi autori?
Il mio tipo di lavoro – studioso di letteratura straniera e traduttore – ha finito per modificare il mio stesso punto di vista. Il fatto di insegnare letterature straniere mi ha permesso di introdurre nel piccolo canone alcuni nuovi autori: in maniera provocatoria, ho cominciato con una bellissima poesia in arabo, tradotta dal grande poeta italiano Toti Scialoja. Si tratta di una lirica scritta da un autore la cui famiglia però viveva da secoli in Sicilia, e che si considerava siciliano. Chiama la Sicilia “terra mia”, e parla di un esilio a cui è costretto da parte dei Normanni. Proprio da quel tipo di poesia nascerà poi tutta la poesia italiana, con la Scuola Siciliana. Di Dante ho invece incluso alcuni versi in provenzale, e ho inserito poeti che scrivono in greco e in latino, come Poliziano e Sannazzaro. Ho infine inserito due “dialettali”, poeti come Belli e Porta e, viceversa, come si era augurato che accadesse uno studioso italiano come Furio Brugnolo, ho inserito per la prima volta (credo) in un’antologia italiana, delle poesie scritte in italiano da John Milton, l’autore del Paradiso Perduto. Come elemento di apertura, dunque, il multilinguismo rientra in tutti i testi.
Anche nell’ incontro di domani sera pensa di seguire questo tracciato?
Devo dire che lascio sempre molto spazio all’improvvisazione: più vado avanti nell’insegnamento, e più scopro che, sulla base di una scaletta indispensabile, la cosa più divertente è avventurarsi nel discorso, lasciando un certo margine di improvvisazione. Secondo me, spesso il docente ha più da imparare di colui che ascolta. Io per esempio prendo spesso appunti durante le mie stesse lezioni –per via di idee, spunti o collegamente che sorgono parlando o dialogando. Detesto tutto ciò che è pre-paratorio, pre-fabbricato; sono un nemico giurato del Power Point, quel sistema che obbliga a preparare materiali prima degli incontri. Nelle mie lezioni uso sempre un computer acceso, aperto su Google, per cui, mentre spiego Molière, faccio ascoltare la musica di quel periodo, mentre faccio lezione su Mallarmé faccio vedere le mappe della Parigi ristrutturata da Haussmann… Molte cose, in effetti, vengono in mente lì per lì. Per me la lezione è aperta a queste possibilità di sviluppo.
Quando si è avvicinato alla letteratura e alla poesia francese?
In realtà scappavo dalla letteratura italiana, con quell’atteggiamento, molto adolescenziale tipico di tanti liceali. Non ne potevo più dei soliti nomi, di cui non spesso capivo la grandezza. Allora, il primo incontro è stato con la letteratura francese, poi sono finito a studiare cinema alla Sorbona, perché da sempre adoro il cinema. Feci undici esami, ma a un certo punto cambiai tutto, tornai a Roma e mi laureai in Storia della Filosofia, seguendo un percorso molto diverso da quello iniziale. Nello stesso periodo, per sei anni, ho studiato a fondo tedesco e la letteratura tedesca, forse quella che conosco meglio dopo quella francese. Nel frattempo avevo tradotto, scritto molto di letteratura francese, e sono ritornato ai miei studi, di cui sono tuttore veramente felice. Insegnare è una delle cose più belle che mi siano capitate: per me l’insegnamento è piacere allo stato puro.
Tornando alla sua poesia: un poeta continua a chiedersi cosa sia la poesia?
Beh sì, ogni poesia è scritta per rispondere a questa domanda. Anche se poi le poesie cambiano enormemente: ora, ad esempio, sto terminando dei testi che non avrei mai pensato di scrivere, e anche questa è una cosa molto bella. Ho cominciato dal secondo o terzo libro a usare le citazioni, cosa che prima non facevo quasi mai, e adesso è una delle cose a cui tengo di più. Un po’ come dicevo prima, nulla è pre-disposto, nulla è pre-fabbricato: la poesia sta appunto nello smarrirsi ogni volta che si ricomincia. Ogni volta si replica un abbandono iniziale, si ritrova quella posizione di stupore senza la quale regnerebbe invece una noia mortale.
Che effetto le fa rileggere le sue poesie? Vorrebbe modificare qualcosa?
In parte lo faccio, spesso ripubblico poesie modificate, però tenga presente che quando si arriva al libro, c’è già depositato un percorso di anni e anni. In genere faccio passare molto tempo tra un libro e l’altro, quindi le poesie che arrivano al traguardo sono già passate per numerosi collaudi; ciò fa sì che, a distanza di quarant’anni dal mio primo libro, mi ci continui più o meno a riconoscere. Sa quando si fa palsma la creta? Uno fa un piatto, fa un vaso, poi lo mette a cuocere e, dopo questi passaggi, dopo l’ opera di cottura, di raffreddamento, di smalto, di pittura, l’oggetto si cristallizza: questo è il caso delle poesie, che dopo un po’ si raffreddano da sole, terminano la loro crescita. Nelle raccolte che leggo, io trovo poesie arrivate a maturazione del loro percorso, ecco perché mi sembrano concluse. Ciononostante, in alcuni casi, mi capita di saltare qualche verso, le taglio, le interrompo… Quindi è vero, si tratta un lavoro che in teoria non si ferma mai, anche se, in linea di massima, quando una poesia è arrivata al libro ha già percorso un tragitto talmente lungo che, se non è arrivata allo stdio definitivo, ci è comuqnue molto vicina.
Le chiedo un favore: la parte visiva è per lei molto importante, mi aiuterebbe a scegliere l’immagine di sfondo per l’intervista?
Allora… Direi Scialoja, di cui abbiamo parlato prima: è un autore di non-sense straordinari, ma anche un pittore astratto. Sarebbe un’ottima idea.
Le voilà, merci!
Venerdì 1 dicembre ore 18.00
Incontro con Valerio Magrelli
Viaggio sentimentale nella poesia italiana
da Dante a Caproni
Rispondi