di Silvia Bellinzona
Il poliedrico Gene Gnocchi, da comico, ex calciatore e musicista, ci racconta del suo spettacolo, “Il procacciatore” (in scena dal 29 novembre al 3 dicembre) e molto altro, tra il rocambolesco e l’attualità in un mondo dominato dalla tecnofilìa.
• Un titolo inusuale: chi è il “procacciatore”?
Il procacciatore è questo personaggio che tiene una conferenza perché si è messo in testa di voler dare una speranza a chi viene a sentirlo e quindi è uno che “procaccia” le anime: cerca di far sì che la gente esca dal teatro fiduciosa nella vita e nel domani. Lo spettacolo racconta di una conferenza che viene messa a dura prova: facendo scorrere le slides da una app installata sullo smartphone, a un certo punto ciò che vedono gli spettatori non sono più i testi sui problemi di oggi – dal veganesimo alle controversie sui vaccini – ma i messaggi privati di WhatsApp.
C’è una storia curiosa dietro l’idea di questo spettacolo?
Ho questa idea già da due anni: mi ha sempre divertito il fatto che una persona dovesse cercare di uscire da una situazione complicata davanti agli occhi del pubblico. Ho anche fatto un esperimento durante una convention di una società di assicurazioni, per capire quale sarebbe stata la risposta del pubblico – immaginando sempre un imprevisto di carattere tecnico e, dato l’esito positivo, ho portato l’idea sul palcoscenico.
Crede che sia una situazione tristemente possibile o abbastanza paradossale?
È una situazione paradossale ma non più di tanto: invece che possedere uno smartphone molto spesso ne siamo posseduti, dato che ormai è lui che detta la nostra vita e la nostra agenda. C’è quindi anche questo risvolto amaro, del passato dominio della tecnica di cui invece oggi siamo succubi.
Cosa consiglia per avere più privacy in un mondo così aperto?
Cercare di utilizzare la tecnologia per la sua utilità pratica, per informarsi e non per divulgare troppo di sé. Non condivido, per esempio, la diffusione tramite Internet di momenti troppo privati, anche se si tratta solo di una foto mentre si mangia; è qualcosa di non fondamentale e forse, evitando queste e altre pratiche, ci si potrebbe incamminare su una strada più virtuosa.
Si considera più un tecnofobo o un tecnofilo?
Mi considero moderatamente tecnofobo: faccio fatica ad abituarmi alle novità, sono un po’ refrattario e infatti scrivo ancora tutto a mano sui fogli, accumulando una miriade di appunti.
Tornando invece al suo spettacolo, nella sinossi viene utilizzata la parola “deficienza”, che ha un significato legato alla mancanza, all’inadeguatezza, al senso di scarsità: lei pensa che il termine abbia solo un significato negativo o che possa avere una valenza positiva e anche funzionale?
È assolutamente una cosa positiva, se strutturata in modo consapevole: il saper togliere, il deficere in opposizione alla pretesa di pienezza è una grande qualità e dev’essere coltivata, perché il vero sapere è quello che toglie, che arriva all’essenziale. Ci vuole molta cultura, bisogna frequentare i luoghi giusti. È meglio sapere e mostrare di sapere di meno, piuttosto che cercare di mostrare di sapere di più: non apprezzo le persone che fingono di conoscere, se una persona non sa qualcosa non c’è niente di male nel domandare. La pretesa di voler dire per forza qualcosa su tutto è una follia e genera la “spazzatura” che, purtroppo, circola ultimamente.
Oggi giorno abbiamo la possibilità di reperire istantaneamente le informazioni, ma ciò che ne deriva è una visione frammentaria e incompleta: parlerà anche di questo nel suo spettacolo?
Chi fa questo lavoro è in fondo moralista, soprattutto chi fa l’umorista, il comico, l’ironista. Come diceva Flaiano: l’umorista vive in una società imperfetta e che vorrebbe diversa, assemblando il materiale che ha e disponendolo come se intravedesse un mondo differente. È normale che, avendo un minimo di intelligenza e di consapevolezza nell’organizzare uno spettacolo, si faccia un’istantanea dell’attualità.
Una curiosità: se le chiedessero di restare dieci anni in un settore, preferirebbe la televisione o il teatro?
Sceglierei sempre il teatro. Non ci sono lati negativi nel teatro: mi piace salire sul palcoscenico e raccontare storie, lo farei anche con un uditorio di dieci persone. Parlare a teatro non è facile, bisogna averne la disposizione. La televisione invece ha molti pregi ma anche qualche difetto: quasi sempre necessita di compromessi, tra il programma, l’orario di messa in onda, i compagni di lavoro, la regia e altre componenti che non dipendono da te. Nel teatro, invece, tu sei il centro, sei da solo e le persone giudicano la tua performance. È più difficile, perché non bastano sketch brevi, ma ci vuole tanto lavoro per riempire e rendere interessante l’ora e mezza dello spettacolo e ha un sacco di regole che bisogna sapere e che servono per coinvolgere il pubblico. Purtroppo in televisione ce ne vuole un po’ meno al giorno d’oggi, mentre una volta era tutto molto più curato.
Concludendo, nel suo spettacolo troveremo la soluzione alle controversie del mondo moderno?
Nella conferenza c’è la soluzione, chiaramente a modo mio. Gli argomenti trattati ci sono, ma in un modo un po’ eccentrico.
Non ci resta che andare nella sala A come A del Teatro Franco Parenti dal 29 novembre al 3 dicembre, per assistere a uno spettacolo tragicomico ma tremendamente reale.
Uno spettacolo di
Gene Gnocchi e Simone Bedetti
Produzione Marangoni Spettacolo
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