Intervista a Italo Testa di Roberta Maroncelli
«Pieno di merito, ma poeticamente abita l’uomo su questa terra»
In una conferenza del 1951, il filosofo tedesco Heidegger riprende questo verso della poesia In amabile azzurro di Hölderlin per approfondire una riflessione filosofica sull’abitare dell’uomo. Poesia e filosofia si incontrano, ma cosa accomuna e cosa distingue effettivamente le due Sorelle rivali? Lunedì 6 novembre, Massimo Cacciari racconterà di questo polemos in una lectio nella Sala Grande del TFP. Aspettando la serata del 6 novembre, noi del Blog Sik-Sik abbiamo chiesto una piccola anticipazione proprio ad una persona che esercita entrambe le pratiche, Italo Testa, poeta contemporaneo italiano, vincitore di numerosi premi nazionali e professore di filosofia presso l’Università di Parma.
Professore, pensa che esista un legame tra poesia e filosofia?
Sì, senz’altro storicamente esiste un legame: già nel pensiero greco, la nascita della filosofia è legata ad una “secessione” dalla poesia, nella misura in cui la pratica poetica era la culla della tradizione greca; la filosofia nasce come rottura dall’interno di questa secessione in quanto intende monopolizzare il discorso della verità. È un rapporto di conflittualità non tra estranei ma tra discorsi estremamente prossimi, vicini tra loro, che si contendono un’egemonia nel discorso pubblico: è un conflitto intorno al regime della verità, cioè quale di questi discorsi abbia il diritto di esercitare un dominio nell’ambito del vero.
E in prospettiva non storica?
In prospettiva non necessariamente storica, è un rapporto di vicinanza non garantita: sono due modalità dell’articolazione del linguaggio e dell’esperienza estremamente prossime, ma al tempo stesso si articolano secondo modalità divergenti; un aspetto classico di divergenza riguarda il rapporto tra concettualità e discorso intuitivo, cioè l’idea che la poesia si esprima più attraverso il sentimento, la presa immediata, mentre la filosofia privilegi il discorso argomentativo, articolato concettualmente. Un altro parametro riguarda la questione dell’immagine: se il discorso filosofico nasce anche come rivolta contro l’immagine – pensiamo a Platone e al problema del superamento della doxa, dell’apparenza – quello poetico tende invece a salvare l’apparenza. Potremmo dire che la poesia abbia più a che fare con “il volto lucente del mondo” mentre la filosofia tenda a pensare la verità come regno che sta al di là di ciò che è manifesto.
Ma lei, che è poeta e filosofo, come vive questo legame?
Fin da quando ho cominciato a interessarmi di filosofia, lo ero anche del discorso poetico, quindi il rapporto tra queste due pratiche si pone dall’inizio come il vivere o l’abitare una sorta di scissione non completamente ricomponibile, cioè di avere una mente un po’ divisa. Una cosa che mi è sempre stata cara è di non fare poesia come prosecuzione della filosofia, e viceversa. Si tratta di accettare l’idea che non siamo né uno, né nessuno, né centomila, ma perlomeno due, quindi che la mia tensione espressiva – usare il linguaggio per parlare, per esprimermi – si coniughi secondo due modalità reciprocamente non esauribili.
E come le ha conciliate, se ci è riuscito?
Ho continuato ad avvertire il mio fare poesia come qualcosa non completamente in sintonia con ciò che stavo facendo ufficialmente, istituzionalmente, come se avessi una doppia appartenenza. Spesso ho pensato che il modo in cui facevo poesia fosse quello dell’agente sotto copertura. Penso che non riguardi solo la mia esperienza individuale, ma l’esperienza del poeta nella società contemporanea, dove la poesia non ha più un ruolo istituzionale, stabile e riconosciuto. Lo stesso Montale, quando si qualificava, diceva di essere giornalista: riteneva che la sua missione fosse la poesia, ma al mondo esterno non si qualificava come tale, rimaneva “sotto copertura” rispetto ad un ambiente in parte ostile alla poesia stessa.
Quindi secondo lei, cos’è la poesia?
Non c’è un solo modo di fare poesia, ce ne sono diversi e non si può dare una definizione metastorica della pratica poetica. Mi piace l’idea della pratica poetica come tensione nel linguaggio e oltre il linguaggio, a mettere in crisi il modo in cui ordiniamo la nostra esperienza. Credo che la poesia abbia a che fare con una sorta di ricettività attraverso il linguaggio, di una ipersensibilità rispetto a delle interferenze che vi operano e non vengono obliterate dagli altri discorsi. Secondo me uno dei segreti di cui si fa portatrice la poesia è il registrare, il rendere traccia di interferenze e anche delle distorsioni nell’esperienza e nel linguaggio e non altrimenti testimoniate da altri discorsi.
Cosa risponderebbe a chi dice “filosofia e poesia non servono a niente”?
Chi sceglie di percorrere uno di questi due sentieri o entrambi è motivato da una sorta di protesta contro l’utile, cioè da una messa in discussione della divisione sociale del lavoro, dell’idea che qualcosa possa essere apprezzato soltanto in quanto consegue un’utilità sociale. Credo che molti di quanti fanno poesia o filosofia apprezzano ciò che fanno proprio perché non è utile e quindi estremamente utile ai fini della vita umana. Forse non è un’utilità ma qualcosa di differente, che riguarda l’esistenza umana, che non può compiersi o fiorire se non si prende cura e non salvaguarda anche ciò che non ha alcuna utilità immediata ma che, proprio come tale, contribuisce a espandere il nostro orizzonte, il nostro senso di vitalità e il nostro essere al mondo.
Lunedì 6 novembre alle ore 18.30
Lectio di Massimo Cacciari su poesia e filosofia Sorelle rivali
Rispondi