di Beatrice Salvioni
Quando ero piccola e avevo la febbre, mia nonna mi ripeteva sempre la sua personale soluzione per tutti i mali: leggi Spoon River.
Come qualcuno potrebbe dire: bevi un bicchiere d’acqua. Leggi Spoon River.
Hai mal di testa? Leggi Spoon River. Ti senti abbattuta, triste, insoddisfatta della vita? Leggi Spoon River. Fuori c’è la neve ma tu sei malata e mamma ti costringe a rimanere a letto? Leggi Spoon River.
Così, in un giorno d’inverno, lo lessi davvero. Lo lessi come si legge un libro di poesie: partendo da metà e aprendo a caso le pagine per leggere dove l’occhio si soffermava.
L’atmosfera era quella giusta: la neve cadeva e io passai quel pomeriggio in compagnia delle voci dei morti. Ma non fatevi ingannare; i morti di Spoon River sono più vivi che mai, palpitanti, aggrappati alla vita, ai grandi rimpianti e alle piccole gioie della loro esistenza.
Parlano dai loro epitaffi e raccontano con semplicità e senza più finzioni, perché non c’è spazio per la menzogna nella morte, la propria vita. Alcuni gridano e scalciano, rabbiosi per una vita sprecata, come il giudice Somers. Altri ridono di gusto per una vendetta compiuta dalla tomba, come la vecchia Ollie McGee, o per un premio ottenuto senza merito, come l’ubriaco del villaggio, Chase Henry.
Ma tutti, tutti, dormono sulla collina.
Ci sono donne morte di parto, altre morte d’amore, altre di solitudine, altre di violenza come la poetessa del villaggio Minerva. Ci sono bambini morti prima di nascere, altri poco dopo aver imparato a giocare, uomini morti in una guerra intrapresa per fuggire alla prigione, come Knowlt Hoheimer che avrebbe voluto barattare la pallottola che gli ha trapassato il cuore con centinaia, migliaia di anni di prigione. Invece ha avuto la morte e una scritta che non significa niente su una tomba di marmo: Pro patria.
Ci sono uomini soli come Benjamin Pantier che fu sepolto insieme all’unico compagno fedele, il cane Nig, uomini che hanno disperatamente amato, fino a morirne e giovani che uccisero la vecchia zia con il cloroformio per prenderne l’eredità e potersi sposare.
Ma tutti, tutti, dormono sulla collina.
Lee Masters è attento ai piccoli fatti quotidiani, alle piccole tragedie, alla vita comune e non eroica di persone semplici, collega questi frammenti di storie con fili che si dipanano all’interno di tutta l’antologia con richiami che continuano a rinviarsi fino a portare il lettore a conoscere quasi di persona gli abitanti di questo villaggio sulla riva del fiume Spoon. Non sono solo storie inventate quelle incise negli epitaffi di Spoon River; Masters prese ispirazione dagli abitanti dei villaggi in cui aveva trascorso l’infanzia, tra Petesburg e Lewistown e c’era tanta verità nei suoi versi da meritargli l’esilio indignato da parte delle due cittadine.
I versi di Masters, arrivati in Italia grazie a Pavese e tradotti da Fernanda Pivano, rivivono questa sera a teatro. I morti di Spoon River potranno tornare a raccontarsi con la voce dei vivi, grazie alla partecipazione di due scrittori: Fabio Genovesi e Carmen Pellegrino e alle letture di Lucilla Giagnoni e Renato Sarti, accompagnati da Davide Van de Sfroos, che raccoglie l’eredità di De André, e la sua la musica che così tanto ha in comune con la poesia.
Curiosi? Andate a teatro. Leggete l’antologia.
Ma soprattutto ascoltate: le voci di Spoon River hanno ancora tanto da dire.
RICORDANDO NANDA PIVANO
SPOON RIVER tra poesia e canzone
Fabio Genovesi scrittore
Carmen Pellegrino scrittrice
Antonio Troiano responsabile della redazione Cultura del Corriere della Sera e de La Lettura
Chitarra e voce Davide Van De Sfroos
Letture Lucilla Giagnoni e Renato Sarti
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