Il Purgatorio di Dorfman-Rifici: come andare oltre l’orrore?

di Lucia Belardinelli

Al Teatro Franco Parenti, fino al 15 ottobre, Carmelo Rifici porta sulla scena il dramma di un grande autore, Ariel Dorfman, scrittore, drammaturgo, saggista e professore, divenuto celebre in particolare grazie a La morte e la fanciulla, da cui Polanski ha tratto uno dei suoi maggiori capolavori.

Purgatorio è una pièce che narra metaforicamente l’universo di Dorfman, condensando tematiche che hanno a lungo accompagnato la riflessione (e la travagliata vita) dello scrittore. La sua esistenza fu caratterizzata da una lunga serie di trasferimenti: la famiglia, di religione ebraica, era stata costretta a fuggire in Argentina, dove Ariel nacque nel 1942; poi lo spostamento in Cile, dove collaborò con Salvador Allende, e in Europa, dove si rifugiò dopo il colpo di stato di Pinochet, fino agli Stati Uniti. Gli orrori della dittatura di Pinochet lo spinsero a meditare a lungo: una volta terminata l’oppressione, come la si può ricordare? Solo con odio o è possibile un perdono? Come dimenticare l’orrore e, al tempo stesso, tramandarne la memoria? I colpevoli vanno giudicati. Ma i colpevoli possono anche essere perdonati, conditio sine qua non la necessità di scorgere una forma di pentimento nei carnefici.

Purgatorio è un grande escamotage attraverso cui Dorfman analizza questi temi, rileggendo la tragedia classica di Medea e Giasone, il mito dell’amore fallimentare, del tradimento, dell’impossibilità di un dialogo, del desiderio di vendetta che porta a un’assurda violenza, della crudeltà e dell’impossibilità del perdono senza pentimento. Il tutto, in Dorfman, calato in una dimensione privata, in uno spazio in cui stanno solo due attori, in una specie di salotto da dramma borghese.

I due interpreti di straordinaria bravura, Laura Marinoni e Danilo Nigrelli, danno vita però a quattro personaggi. Quello che vediamo è infatti un gioco di specchi, di quadri contrapposti, in cui lei, Medea, viene prima spinta a scavare dentro di sé da una sorta di dottore, e poi ecco che avviene lo stesso per lui, Giasone, che dialoga con una donna in camice bianco che tenta di far affiorare quelle che sono le verità personali dello pseudo paziente.

Carmelo Rifici, il regista, porta così avanti una ricerca ben evidente nei suoi ultimi lavori, focalizzati sul tema della violenza: sta cercando di capire come questa si diffonda, scaturendo da un sentimento di invidia, come questa possa in qualche modo essere sedata, tramite il sacrificio di un capro espiatorio. Qui vittime immolate sono i figli di Medea e Giasone, mentre nell’altro recente lavoro di Rifici, andato in scena al Piccolo Strehler la scorsa primavera, Ifigenia, liberata, il capro è incarnato dalla protagonista stessa, uccisa dal padre Agamennone per propiziarsi il favore degli dei in vista della partenza per Troia.

Medea e Giasone sono entrambi colpevoli, chi più chi meno, della morte dei loro figli: lei li ha uccisi, ma lui l’ha abbandonata per sposare una donna ritenuta migliore. Il tentativo dei due “dottori” sarà quello di far affiorare le responsabilità di ognuno, tanto che ne scaturirà una sorta di gara tra gli ex amanti, una gara a chi confesserà per primo e a chi per primo abbandonerà quel luogo che tanto ricorda una normale casa, probabilmente il luogo del delitto, ma che in realtà capiamo essere l’aldilà, dove i due protagonisti approdano quando la loro esistenza è ormai conclusa e quindi pienamente giudicabile.

Il dramma si svolge come un vero e proprio thriller, ambientato in quello che può ricordare per la presenza di microfoni e telecamere un set cinematografico, oltre a rimandare alla casa dei due e quindi al luogo in cui Medea ha ucciso i figli. Inoltre, affiora in alcuni momenti la presenza di quelli che sono personaggi esterni e non visibili sulla scena, quelli che tecnicamente dovrebbero visionare le registrazioni in cui i colpevoli portano alla luce elementi cruciali per uscire dalla stasi purgatoriale, arrivando alla consapevolezza seguita da un sincero pentimento. Queste presenze evanescenti possono essere i figli ammazzati, che devono giudicare i propri genitori, o, perché no, gli spettatori stessi, il cui ruolo a teatro diventa facilmente quello di giudice.

 

PURGATORIO

di Ariel Dorfman
traduzione di Alessandra Serra
con Laura Marinoni e Danilo Nigrelli
regia di Carmelo Rifici
scene e costumi Annelisa Zaccheria
disegno luci Matteo Crespi
musiche Zeno Gabaglio
video Roberto Mucchiut
produzione LuganoInScena
in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura e Ert – Emilia Romagna Teatro Fondazione

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