di Roberta Maroncelli
Una di queste sere, in viale Zara, potreste imbattervi in un furgoncino particolare, con a bordo una prostituta e alla guida un uomo: sono l’attrice Elena Cotugno e, al volante, il regista Gianpiero Borgia. Con loro, sui sedili dietro, sette spettatori. Un’esperienza «immersiva» , Medea per strada, fino a domenica 25 giugno in scena al Teatro Franco Parenti. O almeno, in partenza da lì, per ricordarci del mondo della prostituzione e delle sue sventurate protagoniste. Abbiamo intervistato il regista Gianpiero Borgia: a lui il racconto di un viaggio che comincia da un’esperienza personale e che si conclude a bordo di un furgoncino bianco .
Perché “Medea per strada”?
Il titolo è quello di un progetto che si chiama Medea per le strade d’Italia, che si precisa in ogni città in cui andiamo, assumendo il nome della via più battuta dalla prostituzione. Qui a Milano, dove la situazione è diffusa, abbiamo scelto Medea per strada.
Come nasce l’idea dello spettacolo?
Nasce per contrastare una diffusa ipocrisia e indifferenza rispetto a un problema più che visibile. In particolare, nasce da un laboratorio per giovani attori, fatto un paio d’anni fa, sulla tematica dello straniero. È stata l’occasione di studio di Euripide, dell’idea di straniero nell’antichità e di come le cose non siano cambiate. Ma nasce anche da un aneddoto familiare: io ed Elena (l’attrice, ndr) abitiamo a Barletta e gestiamo un teatro a Corato; la strada tra Barletta e Corato è una statale della prostituzione e la percorriamo quotidianamente quando lavoriamo. Il fenomeno è nella sua crudezza molto più lampante ed evidente: è una prostituzione diurna, e non è che la Puglia sia un posto fresco. Se vedi una ragazza sulla statale alle 14 senza ombrellone, capisci che non è più prostituzione, è schiavitù. Quello che ci toccava era il meccanismo di compassione nei confronti di queste ragazze e l’assoluta indifferenza del nostro mondo di riferimento che percorre quotidianamente quella strada senza mai fare niente.
Quindi cosa è scattato?
È scattata una frizione tra un’idea artistica, l’urgenza di affrontare un tema, e quello che secondo me è uno dei motivi per i quali bisogna fare teatro: rompere meccanismi di indifferenza, di prevalenza del senso comune sulla capacità di riflessione. Nello stato attuale, in particolar modo, il teatro ha un dovere in più: essendo legato all’oralità, all’approfondimento verticale, alla creazione del paradosso, deve conservare una sua voce e diventare un luogo per uscire dalla formazione dell’opinione narcisistico-superficiale dei social network. Queste problematiche complesse – la prostituzione, la migrazione, la schiavitù – non sono risolvibili con la banalità di un tweet. Invece ho l’impressione che la nostra epoca tenti di esorcizzarle in questo modo.
Spettacolo itinerante, furgoncino e pochi spettatori.
Perché fare uno spettacolo immersivo, che ha caratteristiche da marketing-trendy del teatro contemporaneo? Questa ricerca ostentata del trucco non è nel mio stile ma viene fuori perché, aperto il tema, abbiamo scoperto un mondo. Rotto, noi per primi, questo velo di indifferenza e iniziato ad approfondire con una ricerca, per me in termini di studio e per Elena sul campo, abbiamo scoperto mondi anche più orridi di quelli che si possono immaginare. Quello che ci è capitato non è restituibile in un’ora, in nessun modo; bisognava trovare una chiave che riuscisse a restituire almeno la forza delle emozioni di questo nostro viaggio. La dinamica immersiva dello spettacolo serve a far rivivere allo spettatore, con la stessa forza, quello che abbiamo vissuto noi per un anno.
In che cosa è consistito il lavoro di documentazione di Elena?
Noi non facciamo teatro civile ma teatro d’arte, che però questa volta coincide con la tematica civile. La preparazione di Elena percorre due binari diversi: uno di crescita personale, che è consistito nel volontariato sul campo, collaborando con l’associazione Oasi2 di Trani, la “banale” assistenza sanitaria (bottiglietta d’acqua e preservativo). Ha conosciuto mille storie e questo indubbiamente ha formato in lei un’urgenza di raccontare. L’altro binario, del lavoro più squisitamente artistico, è consistito nel mettere il contenuto in una forma: Elena dà vita ad un personaggio che non esiste, che parla una lingua strana, si muove in un solco narrativo che ha delle stringenti analogie con il mito di Medea; le scene che lei narra hanno quasi tutte un ponte analogico con quelle di Euripide.
Puoi raccontarmi qualcosa in più delle vostre scoperte sulla prostituzione?
È un mondo estremamente articolato quello in cui si muovono le associazioni. La casistica è una su mille e il finale del percorso è l’inserimento della ragazza in un programma di protezione, ma prima ci sono una serie di rituali di avvicinamento volti a costruire una sufficiente fiducia: devi pensare che parlano con l’assistente sociale mentre lì dietro sta il pappone che le minaccia di vita. Si va dal 100% di schiavitù delle ragazze che provengono da Paesi in via di sviluppo, ragazze senza scolarizzazione, utilizzate come merce di scambio, che arrivano in Italia già totalmente traumatizzate e che vedono nel protettore che le raccoglie un salvatore, rispetto a quello che hanno già passato. Questa casistica è contrapposta alla prostituzione volontaria delle italiane, normalmente una prostituzione senile, dettata da condizioni di disagio psichico o tossicodipendenza.
Sicuramente dopo Medea agli spettatori sarà rimasto qualcosa…
(sorride, ndr) A noi basta che si portino a casa una storia, l’emozione di quella sera e, speriamo, anche la curiosità di un approfondimento.
MEDEA PER STRADA
con Elena Cotugno
drammaturgia di Elena Cotugno
con la collaborazione di Fabrizio Sinisi
ideazione e regia Gianpiero Borgia
Realizzazione scena Filippo Sarcinelli
Luci Pasquale Doronzo
Rispondi