BULL: LA BANALITÀ DEL MALE SI TINGE DI LUCE AL NEON.

Intervista a Fabio Cherstich

di Beatrice Salvioni

Immaginate: siete in tre su una nave che sta affondando. C’è posto solo per due sulla scialuppa di salvataggio. Uno di voi è destinato ad affogare. Chi si salverà?

Sembra l’inizio di un indovinello invece non lo è: è la regola, spietata e precisa dell’evoluzione: vince il più forte.

“Bull” ci mostra l’universale validità di questa legge delineando i contorni di un mondo lavorativo sempre più spietato e selettivo che schiaccia e tritura senza pietà: tre impiegati aspettano l’arrivo del capo, sanno che uno di loro dovrà essere licenziato, due di loro iniziano un lento, incalzante massacro del collega Thomas, l’anello debole, timido e goffo.

Non c’è via di fuga: la vittima deve essere sacrificata, il sangue versato. Quella del capro espiatorio è una tecnica antica: uno deve soccombere perché gli altri siano salvati.

Di tutto questo siamo spettatori ma con qualcosa di più: ci troviamo ai quattro lati di un ring, assistiamo a un massacro. E rimaniamo a guardare.

La Sala Tre è piccola, claustrofobica. A un certo punto dello spettacolo l’aria comincia a mancare. Letteralmente. Il male di Bull ti prende alla gola e non ti lascia andare.

Abbiamo intervistato Fabio Cherstich che di Bull firma la regia e lo spazio scenico.

Ora è impegnato al Teatro Verdi di Trieste per il quale sta riallestendo la Sonnambula di Bellini, giá portata in scena al Petruzzelli di Bari con il regista Giorgio Barberio Corsetti ma è riuscito a trovare il tempo per rispondere alle nostre domande.

 

Come sei venuto a conoscenza del testo e perché hai deciso di portarlo in scena?

Me l’ha proposto Andrée Ruth Shammah dicendo che secondo lei era un testo giusto per me. Allora l’ho letto; me l’ha dato di pomeriggio, alle dieci di sera le ho scritto un messaggio dicendo: assolutamente si fa. È stato molto semplice. All’inizio ero scettico perché rispetto a testi che sono solito fare è un testo di drammaturgia inglese molto concentrato sull’attore invece io sono più legato al teatro visivo e quindi è stata una bella sfida mettere in scena Bull perché ho svuotato me e ho lavorato per la prima volta per il testo quando io di solito io lavoro con il testo. Che è molto diverso.

Quanto conta, soprattutto in uno spettacolo come questo, lo spazio scenico e quanto l’essenzialità della scenografia influisce sullo sguardo dello spettatore?

Lo spazio scenico è fondamentale. Io faccio un discorso legato allo spazio scenico, firmo la regia e lo spazio scenico, non la scenografia. Sarebbe ancora piú giusto chiamarlo spazio. Mi corregge. Solo: Spazio. Perché io parto, lavorando al Parenti, soprattutto, mai da un palcoscenico ma nelle stanze. La Sala Tre è una stanza. Tu parti dallo spazio, qualsiasi esso sia: un palcoscenico, una stanza, una piazza, un lago, un giardino e procedi per svuotamento. Parto da uno spazio vuoto e mi chiedo cosa mi serve che questo spazio non ha per raccontare questa storia e che cosa è funzionale in relazione a quella che è l’architettura dello spazio. Devo relazionarmi con lo spazio che ospita il mio lavoro e pensare a uno spazio scenico che sia funzionale non solo all’azione della scena ma anche al contesto in cui è inserito. Il mio lavoro è di tipo installativo, tendenzialmente. Intendo, per installazione, inserire all’interno di uno spazio elementi che ne cambiano la connotazione e che sono funzionali alla restituzione di un senso. Nel caso di Bull l’autore suggerisce la disposizione ad arena. Nella mia versione è diventato un ring, mi piaceva il geometrico. Concettualmente questo ring è un ring dove si scontrano gli attori. C’è qualcosa in quegli angoli che m’interessa, come mi interessa il bianco delle luci. La Sala Tre potrebbe sembrare un vero ufficio: ha il soffitto basso, non ci sono finestre, ha una componente claustrofobica che io ho deciso di assecondare. Sarebbe stato un controsenso se avessimo fatto una pedana alta un metro in una stanza che ha un soffitto di due metri e venti. Si sta tutti chiusi dentro questa stanza e si soffre per loro e con loro, per Thomas e con Thomas, piú precisamente.

In questo spettacolo si mette in risalto il ruolo dello spettatore. Lo sguardo non può essere superficiale tanto è vicino, tanto è partecipe. Lo spettatore non è più solo qualcuno che guarda. Diventa qualcuno che assiste. E assiste impotente al massacro di un uomo, forse persino ne sorride. Quanto conta allora lo sguardo?

Per me è fondamentale. La pianta fatta in quel modo e le luci così forti fanno sì che ci siano due spettacoli: quello degli attori e quello del pubblico che sta di fronte che è uno specchio delle proprie reazioni. È uno studio continuo, un rimando di senso rispetto a quelle che sono le reazioni degli altri. Lo spettatore ha due spettacoli: quello che si svolge in scena e lo spettacolo del pubblico che gli sta davanti. Le sue reazioni danno significato e fanno da contrappunto. È un vero laboratorio. Un luogo di analisi, di approfondimento. Questa disposizione a 360 gradi fa si non solo che tu non ti senta solo ma che ti senta osservato e osservi.

Il tuo mondo di lavoro si nutre di arte. Molti pensano ingenuamente che l’arte sia per definizione immune alla violenza, all’arrivismo. È così o è solo un’illusione?

Ride.

Non è assolutamente così. Il mondo dell’arte e del teatro da sempre è fondato sulla “mors tua vita mea”, sul conflitto.

Il teatro è un lavoro e, come tutti i lavori, ha logiche lavorative. Se vuoi meno rigide rispetto a quelle aziendali ma comunque c´è la competizione, c’é vinca il più forte. C’è agonismo. Sarebbe insensato pensare al mondo dell’arte come un mondo idilliaco. Io sono cosciente del territorio in cui mi muovo. Bisogna continuare a crederci.

Parlando di pubblico: quanto è importante per te?

È molto delicata la questione del pubblico e per me è centrale. Il progetto che ho fatto di lirica, per esempio: ho cominciato con la lirica facendo un’opera su di un camion, obbligando un ente lirico a produrre uno spettacolo in perdita che girasse nelle periferie. Questo per me è teatro di ricerca vero, perché è teatro di ricerca di pubblico. Non è un teatro della ricerca del linguaggio. Io sono per il teatro della ricerca del pubblico. Non per il teatro della ricerca interna al teatro. È un pensiero diverso, non è una posizione di indagine linguistica all’interno del teatro perché non è un problema di linguaggio interno, è un problema legato a chi mi rivolgo, in particolar modo sul teatro musicale, sulla lirica. Il teatro di prosa ha avuto già il suo momento di ricerca di pubblico. Nell’opera non era ancora mai stato fatto e nell’opera questo m’interessa.

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