di Beatrice Salvioni
Nell’ultimo appuntamento con i Giovedix letterari ci aspetta un viaggio esilarante e grottesco a bordo di una crociera extralusso nel mar dei Caraibi, accompagnati dalla voce narrante di Gioele Dix e dalla graffiante ironia dell’autore, David Foster Wallace.
Può il resoconto di una crociera di sette giorni diventare un lucido ritratto dell’uomo medio americano, riflesso nella vacuità del “gregge ad alto reddito” dei viziati passeggeri?
Sì, se l’occhio che scruta appartiene a David Foster Wallace, autore fluviale e coltissimo, un classico dell’umorismo postmoderno. Di lui si è detto molto. La critica lo ritiene geniale, la sorella Amy “uno che, dopo averci parlato solo qualche minuto, ti sembra appena sbarcato da una navicella spaziale” e la moglie, riferendosi al suo suicidio avvenuto nel 2008, commenta: “lo ha trasformato in quel tipo di celebrità letteraria che l’avrebbe fatto rabbrividire”. Da abile giocatore di ping pong, Wallace fa rimbalzare la propria scrittura come una pallina da rispedire al lettore. L’ironia è il suo tratto caratteristico, non quella gelida di chi guarda gli altri dall’alto, ma quella indulgente, e non per questo meno affilata, di chi ha la consapevolezza di esserne a sua volta chiamato in causa. Senza per questo annullare il piacere della lettura.
Una cosa divertente che non farò mai più è il quarto libro di Wallace ma il primo a essere pubblicato in Italia, con traduzione di Gabriella D’Angelo e Francesco Piccoli, per la collana Sotterranei Minimum Fax, nel 1998. Il titolo, che traduce A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again, tradisce la sfumatura originale: la cosa che avrebbe dovuto essere divertente si rivelerà non esserlo affatto.
Il racconto nasce come reportage di viaggio commissionatogli dalla rivista Harper’s ma diventa un puzzle di tutte le cose che ha visto, sentito e fatto in quella settimana di lusso assurdo e grottesco, “strana paranoia da eccesso del vizio”. E cosa vede? Enormi navi bianche che sembrano torte nuziali galleggianti, sincero terrore per il risucchio del sistema di scarico del water, profumo di lozioni abbronzanti su tonnellate di carne umana, gente seminuda che non vorresti vedere seminuda, cittadini americani che chiedono all’ufficio informazioni se per fare snorkeling c’è bisogno di bagnarsi, se l’equipaggio dorme a bordo e a che ora è il buffet di mezzanotte, greggi di turisti che si muovono nei loro costosi sandali con avida flemma, gentilezza posticcia e servizio in camera.
David Foster Wallace con la sua “semi-agorafobia” (come lui stesso la definisce) è fuori posto: alle serate formali indossa una maglietta con disegnato uno smoking, perde a scacchi contro una bambina di nove anni, non scatta fotografie al paesaggio e non fa nemmeno un punto alla gara di tiro al piattello. Ma riesce a osservare il mondo che lo circonda con uno sguardo chirurgico che va oltre le apparenze e i gelidi sorrisi professionali dei membri dell’equipaggio, esseri quasi irreali ossessionati dalla fanatica missione del servizio perfetto, per cui “non puoi mai fare qualcosa che potrebbero fare loro al posto tuo”.
Wallace con la sua comicità ci costringe a guardare oltre la patina luccicante della crociera di lusso. Spazia da un’attenta analisi sociologica a una riflessione introspettiva sulle proprie sensazioni: per lui una vacanza è solo “il tentativo di allontanare da sé il terrore della morte”. Viaggiamo attraverso pagine di geniale ironia che non solo fanno sorridere ma che assumono anche il compito di farci riflettere, lasciandoci più pesanti di quando le abbiamo incominciate.
D’altronde, per Wallace il compito di uno scrittore è: “dare qualcosa al lettore. Quando il lettore si allontana dalla vera opera d’arte pesa di più di quando ci si è avvicinato. È più ricco”.
Rispondi