“Albania, casa mia”, Albania, casa nostra

di Roberta Maroncelli

Una storia vera e di coraggio. Questa è Albania casa mia, spettacolo scritto e interpretato da Aleksandros Memetaj, in scena al Teatro Franco Parenti fino a domenica 12 marzo. 

Nella sala Treno Blu Aleksandros è già in scena, seduto a gambe incrociate all’interno di un rettangolo nero. Cappuccio in testa, guarda gli spettatori entrare e prendere posto sulle panche di legno con cuscini rossi. È solo. Pantaloni e felpa, scalzo. Nient’altro. Ma questo gli basta per trasformarsi in suo papà, in sua mamma e nel fagottino che era lui, da piccolo.

Aleksandros ha solo sei mesi quando, nel ’91, arriva in Italia con i genitori, scappati dall’Albania per dare speranza alla vita del figlio. Diviso tra due realtà, il giovane attore porta gli spettatori nella sua esperienza e nel viaggio dei suoi genitori, alternando  nel  racconto  l’ italiano con l’albanese e il dialetto veneziano.

Sembra così fragile, Aleksandros, con gli zigomi pronunciati e le guance scavate da fare quasi impressione. La luce è bassa: due fari illuminano la parete scalcinata della sala di un blu azzurro, un mare freddo. Nella parete di fondo, dei sassolini bianchi, come ghiaia. Davanti, la scena è spoglia:  c’è lui e ci siamo noi che guardiamo, curiosi e intimiditi dalla vicinanza dell’attore.  È la sua storia che riempie presto quello spazio vuoto e fa dimenticare tutto il resto.

Anche Aleksandros, da intimidito, si trasforma, si alza, le luci si accendono e cresce, diventa più grande, più alto, più sicuro. È la forza di suo padre e la dolcezza di sua madre. Si muove restando nel rettangolo nero in cui era seduto, spazio piccolo ma sufficiente, perché quella è l’Albania, casa sua. Da sempre è nel mezzo, al confine tra due identità, ma oggi lui è dentro e noi siamo fuori, ad ascoltarlo. E non importa sapere a quale cultura appartenga, perché vogliamo solo che i suoi genitori scavalchino il muro, che lui, Aleksandros, a sei mesi e con quaranta di febbre, sopravviva al viaggio in barca. Siamo lì con loro, si sentono i vestiti appiccicati alla pelle per il caldo, l’aria salata di mare, l’umidità dello scafo della nave. Si tocca l’odore e la preoccupazione. Con il fiato sospeso, preghiamo che ce la facciano. E tutto questo accade solo all’interno di quel rettangolo nero.

«Saltiamo!» è l’urlo e poi luci spente, spettacolo finito. Ma dal pubblico vorresti sapere ancora, come hanno fatto a costruirsi una nuova vita, ad arrivare in Veneto, ma forse per una sera è abbastanza.

Decido di fermarmi a scrivere nel foyer del teatro, per decifrare le emozioni provate, ma è difficile spiegarle. È stata un’esperienza forte e sono contenta di averla vissuta. Capire la loro storia, conoscere e provare quelle sensazioni è stato uno shock, positivo. Sembra che quel muro con “cocci aguzzi di bottiglia” qualche volta si possa valicare, con tanta difficoltà, per scoprire l’esistenza di un’altra possibilità.

Albania casa mia? No, Albania casa nostra.

 

ALBANIA CASA MIA

di e con Aleksandros Memetaj
regia Giampiero Rappa
aiuto regia Alberto Basaluzzo
Produzione Argot

 

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