di Giulia Guerra
Dal trasgressivo cabaret berlinese del primo dopoguerra all’orrore dei campi di sterminio. Un destino tragico è quello che accomuna le vicende di molte stelle più o meno brillanti dello spettacolo tedesco, strappate al palcoscenico per la loro opposizione al regime o, più spesso e più semplicemente, perché di origine ebraica.
Antonella Ottai, docente di Discipline dello Spettacolo all’Università Sapienza di Roma, ha seguito il percorso fatale di questi artisti del comico che si trovarono loro malgrado a dover continuare il proprio mestiere su una scena ben diversa, quella allestita nell’oscurità dei lager nazisti. Nasce dal racconto attento delle loro storie Ridere rende liberi. Comici nei campi nazisti, il libro pubblicato da Quodlibet Studio che verrà presentato il prossimo 11 novembre presso il Teatro Franco Parenti di Milano, come evento conclusivo del progetto Sulle tracce di George Tabori, con la partecipazione straordinaria di Moni Ovadia.
Ne abbiamo parlato con l’autrice.
Cabaret e campi di sterminio: una contraddizione in termini. O no?
I miei studi consueti hanno sempre riguardato il teatro del Novecento e, certamente, non mi sarei mai accostata al tema della Shoah se non mi ci avessero portato quegli stessi personaggi oggetto delle mie ricerche. Studiando la Berlino dello spettacolo degli anni Venti e Trenta, mi sono accorta che i protagonisti del cabaret berlinese erano accomunati, oltre che dalla loro arte, anche dalle particolari circostanze della loro morte, avvenuta quasi per tutti negli anni 1943-44, e dunque da una fase finale della vita trascorsa per lo più nei campi. Così ho deciso di seguire il viaggio di questi artisti, per la maggior parte ebrei o oppositori del regime, conclusosi tragicamente ad Auschwitz.
Nonostante non ci sia nulla da ridere, nei campi lo spettacolo prosegue, “the show must go on”. Ma a beneficio di chi? Delle vittime o dei carnefici?
Questo è uno degli aspetti più intriganti della vicenda. Molti dei comandanti e dei sovrintendenti dei campi conoscevano la professione di questi internati così “speciali” e in qualche modo ne approfittarono concedendo la riproposizione del loro repertorio all’interno dei campi di concentramento, a volte addirittura istigandoli, e gli artisti si sono ritrovati a fare i comici sotto costrizione, in una situazione davvero terminale, estrema. È vero anche che, finché lo spettacolo continuava, coloro che vi erano coinvolti avevano una sorta di diritto alla sopravvivenza, restavano fuori dalla lista delle vittime. Lo facevano per se stessi, specie se consideriamo la situazione di ignominioso anonimato e sottrazione d’identità in cui versavano: fare cabaret diventava un modo per reintegrarsi nella propria persona. Bisogna poi aggiungere che, secondo molte testimonianze, lo spettacolo all’interno dei campi aveva una funzione “benefica” sugli internati stessi, permetteva loro di estraniarsi per qualche istante dall’opprimente quotidianità, li faceva “ridere”. Un aspetto molto controverso, in realtà, perché alcuni consideravano tutto ciò una forma di complicità con i carcerieri da rifiutare nella maniera più assoluta. Da ultimo è da segnalare come il fatto di far ridere le vittime, ma soprattutto i carnefici, rappresentasse quasi un modo per emergere dall’abisso della massa informe cui erano ridotti, una sorta di riscatto nel rapporto con i loro stessi carcerieri. Per un internato lo spettacolo di fronte al comandante riproduceva il rapporto tra la scena e la prima fila.
Nel libro si riflette sulla specificità della comicità ebraica, al tempo dei campi: fu arma di sopravvivenza o piuttosto estrema beffa?
Questa è un’ambiguità, una duplicità connaturata al genere comico. E del resto la comicità ebraica, Freud lo dice esplicitamente, trova un momento centrale nell’autoderisione. Addirittura, nella fase del cabaret berlinese, la derisione messa in atto dai comici ebrei verso il proprio popolo fu talmente feroce da determinare l’intervento della stessa autorità ebraica.
Per concludere, torniamo al titolo ma rovesciamolo in una domanda: ridere rende davvero liberi?
Sicuramente è un interrogativo che rimane aperto. La risata è una risata estrema, è la possibilità di svincolarsi da qualsiasi protocollo. Certo, la libertà è una cosa, la vita è un’altra, e quella libertà, purtroppo, non necessariamente salvava la vita.
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