VURRIA SAPÉ CHE D’È CHESTA PAROLA, VURRIA SAPÉ CHE VVO’ SIGNIFICÀ
di Ginevra Isolabella della Croce
Martedì 7 giugno, al Teatro Franco Parenti, Salvatore Natoli, Professore emerito di filosofia teoretica dell’Università di Milano Bicocca, discuterà il tema della felicità, per introdurci alle problematiche affrontate dall’ultimo testo di Rosario Lisma, BAD and breakfast, in scena al TFP fino al 12 giugno. Sik Sik ha intervistato il filosofo per avere un’anticipazione della sua prossima lectio magistralis.
Perché scrivere di felicità oggi?
La questione della felicità coinvolge e unisce tutta la storia e l’umanità: è transtorica – mai di moda, d’occasione.
In modo diretto o indiretto, tutti cercano il benessere e la realizzazione di sé. La dimensione esistenziale della felicità attraversa i secoli; è a seconda del contesto storico che variano i tempi e i modi con cui questa può essere cercata e raggiunta.
In che modo la filosofia può avvicinare alla felicità?
La filosofia non è una disciplina, ma qualcosa di molto più grande: la filosofia – similmente a quanto appena detto della felicità – riguarda la vita intera. Prendendo a prestito un’espressione hegeliana, possiamo dire che essa è “il proprio tempo appreso con il pensiero”: una capacità di valutazione che, portando in sé il respiro dell’esistenza, sa guardare lontano.
Se gli uomini perdono la strada è perché non riescono a visualizzare una meta, si chiudono in una sterile miopia, incapaci di immaginare uno sviluppo, di avere un pensiero critico.
La filosofia restituisce lo slancio della spinta, permettendo di avanzare oltre i contraccolpi del presente.
Come si riconosce la felicità, da un punto di vista filosofico?
Durante la mia lectio, cercherò di dare degli spunti di riflessione. Neppure Socrate forniva soluzioni, limitandosi a dare indicazioni. È questo il compito della filosofia. Che ognuno, poi, segua la propria strada.
Dunque, esistono due livelli di esperienza della felicità. Nel primo, ci si ritrova a essere felici quasi per caso, senza aver fatto niente per arrivarvi. In quei momenti ci si sente vivificati da un sentimento di espansione e slancio lontani dal vissuto ordinario. Una tale felicità, che nasce da un rimbalzo, si nutre di attimi e pare fatta per svanire.
Più in profondità, invece, si trova la dimensione morale della felicità, quella vicina all’eudaimonia greca, alla capacità di ascoltare il proprio daìmon, di conoscere la propria specificità e poter così attivare e sviluppare la propria potenza. Non si tratta più di un contraccolpo, quanto di qualcosa che il soggetto costruisce nel tempo. Risuona l’eco delle parole di Nietzsche: “la felicità non risiede nella sazietà, ma nella gloria della vittoria”: non è nell’attimo, che non dipende da noi, ma nel saper vincere; non nel premio per la virtù, ma nella virtù stessa come capacità di realizzazione.
E che ne è della fatica dolorosa dello sforzo? Vi è dunque nella felicità anche il suo opposto?
L’opposto della felicità non è il dolore, ma la noia.
La sfida del dolore può essere stimolante, mentre la noia è lo stato depressivo del soggetto che pensa di riuscire a realizzarsi chiudendosi nella solitudine, finendo così per perdere se stesso e gli altri. La felicità è invece l’intonazione del giusto accordo tra sé e il mondo.
C’è però una noia, come quella del protagonista de Lo straniero di Camus, che riesce a trasformarsi nella comprensione della somiglianza tra l’io e il mondo.
Il limite dell’esistenzialismo, che pur presenta analisi accuratissime dell’esistenza, sta nel supporre una pienezza assoluta che non è nelle condizioni dell’uomo. Non si tratta infatti di raggiungere una condizione perfetta, quanto di essere perfetti in ogni situazione, ovvero di essere in ogni momento intonati all’esistenza. La felicità è frutto di un compito, di un esercizio: più si fa un mestiere, più si diventa abili. Si tratta di farsi la mano con la vita, in una forma quasi artigianale ma sempre fluida, perché la felicità giace nel flusso vitale.
martedì 7 giugno – h 18.30
Lectio magistralis di Salvatore Natoli
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