Dichiaro di (non) aver intervistato Emilio Isgrò

A cura di Ginevra Isolabella della Croce
A cura di Ginevra Isolabella della Croce

Ecco la seconda interv-artista di Chiamateci Sik-Sik: Emilio Isgrò ci ha accolti nel suo archivio, che custodisce le più importanti pagine della storia, cancellate nell’arco di una vita.

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Come è possibile elaborare un pensiero a partire da una cancellatura?

Come nasce un campo di grano? Grazie all’uomo, che ara la terra. Così, aratura e cancellatura sono la stessa cosa: come l’agricoltore smuove la terra alla superficie del campo per piantare nei solchi nuove sementi, così io ho arato il campo del linguaggio per seminare altre possibilità di espressione. Ho cercato di sgomberare il campo della mente, facendo tabula rasa di pregiudizi e sistemi imposti, ereditati tanto dalle tradizioni quanto dalle avanguardie, per ritrovare in esso nuovi significati e cancellare l’eccesso di sofisticheria legata al logos.

I miei primi lavori (cancellazioni di libri che non vendevano niente e anzi mobilitavano sommosse di critici e difensori dei valori della tradizione letteraria che gridavano all’oltraggio) potevano ricordare le opere dadaiste per la loro apparente provocatorietà, ma io non ho mai smaniato né per Duchamp né per la provocazione e mi sono allontanato da una poetica “fissa” e conclusa in sé (Dada è), esprimendo nelle mie opere sempre un rimando ad altro, ma senza la pretesa di contestare o svilire l’ineliminabile valore della storia, che nelle mie opere gioca un ruolo importante. Io sostengo il privilegio di un messaggio culturale e respingo un punto di vista neutrale – sono sempre stato schieratissimo!

Considerato spesso un irriverente e per giunta troppo legato all’impatto estetico, non posso in effetti negare l’importanza di un tale impatto per me: esso si fonda sul campo visivo, che è quello entro cui io opero e dunque io rispetto la forza delle immagini anche a prescindere dal loro contenuto. Parole e immagini hanno una funzione dialettica e non esisterebbero l’una senza l’altra. Nella cancellatura convivono tutte le istanze della comunicazione e l’immagine si fa parola per poi superare la parola stessa, nella speranza che il dire divenga più forte dell’obbligo di tacere.

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Questa unione indissolubile fra parola, immagine e gesto appartiene anche al teatro, con cui Lei ha lavorato più volte. Come l’ha coniugato alle cancellature?

Con lo spettacolo Geremia e Galone, andato in scena a Bologna e Varese, ho creato una cancellazione collettiva: ogni spettatore, munito della sceneggiatura, cancellava dal proprio posto parole o frasi su mia indicazione dal palco – un teatro spontaneo sorto per contagio!

Con l’Orestea di Gibellina, da cui è nato il Festival teatrale delle Orestiadi, sono partito da Eschilo per costruire un testo nuovo, in un siciliano arcaico simile al volgare umbro e al primo toscano. Era il 1985 e non si poteva superare la catena di delitti di quegli anni; così ho trasposto le vicende degli Atridi in quelle dei clan mafiosi, lasciando un finale aperto sullo sfondo dell’immane cancellatura naturale rappresentata dai resti del terremoto che vent’anni prima aveva distrutto la città. Quegli stessi resti, unica sceneggiatura dello spettacolo, rappresentavano la possibilità di rinascita culturale, economica, sociale e soprattutto umana di Gibellina, proprio come le cancellature verbali altro non sono che il tentativo di salvare le parole e la loro occasione di significare e comunicare altro da sé. Le parole tradiscono ma è proprio quel tradimento a dare senso alla vita. A teatro una volta, per una questione di suoni, ho fatto diventare calvo il Delfino di Francia!

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Ma al di là delle parole e dei loro silenzi, delle immagini e delle loro cancellature… cosa c’è nel profondo della sua arte?

Finora, in effetti, abbiamo parlato di un’arte del segno in particolare. Io credo che essere artisti sia principalmente essere uomini o che, comunque, si è tanto più artisti quanto più si è uomini. Quando l’arte viene confusa con l’artefatto, c’è qualcosa che non va. La mia idea di cultura, che è alla base del poter fare arte, è quella di un rischio morale, il rischio di mostrare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero.

Uno degli errori dell’arte è stato quello di aver imboccato la gente con la menzogna che sogni e realtà sono la stessa cosa. L’unica cosa che serve per essere uomini e artisti è essere liberi, liberi da pregiudizi e finalità. Come artista io cerco di portare la mia libertà agli altri, affinché essi possano agire con autenticità umana, affrancandosi dagli schemi e mettendosi finalmente in gioco.

In gioventù ho perso tempo con molti artisti concettuali, poi per fortuna sono riuscito a riconquistare un po’ di idiozia!

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