
«Dissi, tra l’altro, che il film era puramente ottico, solo da guardare: non esisteva una storia né una sceneggiatura; era il risultato di un modo di vedere e di pensare». Questo doveva, secondo Man Ray, illustrare la natura del suo film del 1926: una quindicina di minuti di immagini vorticose e conturbanti, accostate in modo casuale, in puro stile dada e surrealista. A chi avesse insistito nel chiedere spiegazioni, l’artista avrebbe con ogni probabilità risposto con il titolo stesso del film: Emak-Bakia, espressione basca da intendersi come «lasciami in pace».
La donna che ci guarda due volte, con occhi autentici e artificiali, è Kiki de Montparnasse. Anche il suo duplice sguardo veicola la carica ipnotica di questo film, volta a evocare il regno insondato dell’inconscio che il surrealismo provava in quegli anni a portare in superficie.
Ma Emak-Bakia è anche gioco, spunti in immagine.
Basta ripercorrere la sua genesi, che incarna alla perfezione quello spirito dada della noncuranza che in Man Ray pareva connaturato. L’artista per qualche settimana filmò, bighellonando nei pressi della villa del suo produttore, ciò che di volta in volta catturasse la sua attenzione; a queste sequenze volle poi unire quelle di un suo primo film, tra le quali una ottenuta gettando sulla carta fotografica sale e pepe «come un cuoco che prepara l’arrosto».
Non lasciamoci ingannare allora da una delle didascalie nel film: non esiste, non almeno nel senso comune, «La ragione di questa stravaganza».
Rispondi