
In attesa dell’ultimo appuntamento, mercoledì 22 aprile, con l’ultima Lectio Magristralis del ciclo Il piacere del testo, Chiamateci Sik-Sik ha intervistato Salvatore Natoli su Finale di Partita di Samuel Beckett.
Partiamo subito in media res: il personaggio di Hamm non può vedere, non può muoversi, è bloccato in un mondo post-apocalittico. Qual è secondo lei il motivo che lo spinge a continuare a vivere?
La caratteristica di Beckett è la irreperibilità del senso. Mettiamola così: Beckett è una delle declinazioni del nichilismo, quella fase che definisco “nichilismo freddo”. Nel nichilismo caldo, che nasce a fine ‘800, rintracciabile in autori come Baudelaire e Leopardi c’è un senso di pathos e di delusione. Sono gli orfani di Dio. In loro c’è il senso della catastrofe, della disperazione, la distruzione di tutti i valori. In loro troviamo le premesse per la fase “fredda”, dove viene meno la domanda sul senso. Non c’è più la dimensione del fine, ma non c’è nemmeno la dimensione della fine. C’è solo una sopravvivenza parabiologica. Il disperato si uccide. Chi non si pone più il problema, e non ha la nostalgia del Dio si lascia essere.
In Beckett c’è la continua ripetizione, il gesto meccanico, in cui si riempie il tempo senza che esso sia finalizzato. E allora è la biologia che vive di se stessa. I gesti dei personaggi sono riflessi condizionati, robotici.
Però c’è sofferenza.
Sì, ma è la sofferenza tipica della condotta nevrotico ossessiva. C’è sofferenza ma non c’è tragedia. C’è l’impossibilità del tragico. Infatti loro non sono personaggi tragici, sono comici! Lo spettatore o non capisce nulla o lo vede come un insieme di battute.
Nonostante tutto i personaggi hanno momenti in cui cercano di uscire dalla loro sofferenza. C’è davvero ricerca di una condizione migliore?
Se volessi usare una parola impropria direi che non c’è nemmeno la sopravvivenza, ma c’è una “sub-morienza.” Loro non vivono di vita propria, ma hanno queste esplosioni vitali, che vengono subito spente, ma non rassegnate. Spente perché si lascia cadere il discorso. Questi sono più impulsi mentali da sistema nervoso. Direi che quasi involontariamente gli atti fanno parte di una tipologia di azioni da neurobiologia. Ma si ha ossessione, non angoscia; quindi la ripetizione. Vorrei citare un libro di Deleuze, “L’épuisé” (L’esausto) dove si fa una differenza tra lo stanco e l’esausto.
Il primo non dispone di nessuna possibilità soggettiva, ma questa possibilità permane. Cioè lo stanco non ce la fa più, ma la possibilità permane. Ha solo esaurito la messa in atto. L’esausto esaurisce invece tutto il possibile. L’esausto non può più possibilizzare. Si nasce esausti quando nulla di ciò che accade è da realizzare, accade perché accade.
L’infelicità diventa comica perché non è più tragica. Infelice di cosa se non c’è più fine? Cosa perdi, se non c’è più nulla da guadagnare, se il possibile è l’equivalente.
Declinando questo testo alla nostra quotidianità anche noi possiamo essere definiti esausti?
In un certo senso sì, e direi che la grandezza di un pensatore come Beckett è di far vedere quello che di fatto è praticato. Perché noi siamo in un mondo in cui l’elemento robotico è corrente. C’è l’attivarsi di un processo con una sempre più ridotta selezione dei fini. Fino al punto in cui non si distingue più la differenza tra mezzo e fine. Il telefonino è un mezzo o un fine?
Può essere entrambe le cose.
O non sai cos’è! E allora c’è un rapporto robotico, non puoi farne a meno, come non puoi fare a meno di bere o defecare. Infatti in Beckett c’è sempre l’elemento fisiologico, quello basso. E’ il sentimento di mancanza del fine che lui sente nella sua opera e che vede nella vita, è questo sentimento che rende robotica la vita.
C’è la dimensione dell’indugiare, del lasciarsi essere, per cui tu non sei più titolare della tua vita. Ogni tanto ci sei, ma poi ricadi nella roboticità.
In definitiva di questa nostra condizione dobbiamo ridere o piangere?
Secondo me, se vuoi la mia posizione, dobbiamo prendere una posizione spinoziana. Non piangere, non rifiutare, non ridere ma agire, cioè diventare titolari della propria azione. La mia posizione filosofica è la riemersione della struttura responsabile del soggetto. Allora così finalizzi la tua vita. E allora prendendo spunto da Marc’Aurelio che si interrogava sulle due posizioni importanti dell’epoca, dice: “Poco importa che il mondo sia retto dalla necessità o dal caso. Sei tu che non devi andare a caso.”
Sequeri secondo lei cosa dirà su questo?
Sicuramente tirerà fuori il divino, sempre che riesca a trovarlo. L’opera d’arte è un’opera aperta, trovi cose perché la interroghi in una prospettiva. L’opera supera il suo autore. La grande opera diventa senza autore.
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Mercoledì 22 aprile, ore 18
Teatro Franco Parenti e Intesa Sanpaolo Lezione magistrale di Salvatore Natoli e Pierangelo Sequeri NON C’È NIENTE DI PIÙ COMICO DELL’INFELICITÀ In occasione dello spettacolo |
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