Il teatro fra noi leggeri – Intervista a Tullio Pericoli

A cura di Ginevra Isolabella della Croce
A cura di Ginevra Isolabella della Croce

Ecco un’insolita intervista nel panorama teatrale di Chiamateci Sik-Sik: il noto disegnatore e pittore Tullio Pericoli ci ha invitati nel suo atelier milanese per chiacchierare d’arte e teatro.

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Qual è stato il suo primo contatto con il teatro?

Il gong dell’inizio fu uno squillo del telefono: all’altro capo della cornetta l’allora soprintendente del Teatro dell’Opera di Zurigo, Alexander Pereira, che mi proponeva di occuparmi dell’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti. Fu come se avessi invocato io stesso quella chiamata; da tempo desideravo portare in scena il mio lavoro attraverso un’opera lirica, i cui vantaggi sulla prosa sono tanti: bene o male i più ne conoscono la trama e ci si può focalizzare sulla musica che, meglio di qualsiasi parola, si adatta alle visioni di un pittore. Fu un momento intenso e ambivalente della mia carriera: ero entusiasta ma preoccupato, dovevo imparare un mestiere tutto da capo e allinearmi alle aspettative che erano state cercate e riposte in me. Lavorai due anni a quello spettacolo, divenne la mia seconda pelle, mi arricchì di esperienze e conoscenze ma appesantì di oneri e impegni e dovetti fare una scelta: se avessi continuato a lavorare in teatro non avrei più avuto tempo per la pittura.

Cosa ci fa un pittore a teatro?

Glielo racconto con un esempio simbolico: nell’Elisir d’amore il personaggio Dulcamara entra in scena attraverso un disegno, un’immagine di sé delle sue stesse dimensioni; poi il disegno cala fino a scomparire per lasciare il posto al personaggio in carne ed ossa. Alla fine dell’opera avviene l’opposto ed è il disegno a sovrapporsi al personaggio. Questa trasformazione corrisponde in qualche modo al mio percorso dalla pittura alla vita e di nuovo alla pittura; o meglio, attraverso la pittura a una nuova vita: cos’è disegnare se non creare nuovi mondi? E cos’è dunque metterli in scena se non far muovere, danzare questi mondi in un altro spazio?

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Quindi per lei il teatro, l’arte, è movimento?

È vita, essenzialmente. E la vita è movimento. Un’opera ha senso, ha vita, se non è ridondante. A teatro, più che la staticità fisica, mi annoia o innervosisce la concettuosità, l’eccesso di metafore, il rimando forzato di ogni gesto vocale ad altro. Certo, tutto significa sempre altro, ma è necessario un filtro artistico, un linguaggio, che non può essere rappresentato da un concetto immobile, ma dall’ammissione di star fingendo: il teatro è finzione e la finzione è qualcosa di naturale, ma quanto più si cerca di essere naturali, tanto più si finge. In Pensieri della mano (Piccola Biblioteca Adelphi, 2014) ho cercato di dire come si sviluppano i procedimenti inventivi, che sono principalmente due: dal concetto all’opera o dall’opera al concetto. Per me, il concetto si trasferisce successivamente, con naturalezza, nell’opera che si crea. Mi piacciono le opere che nascono da un flusso ispirativo in cui sia presente il germe di un concetto che, via via, entra a far parte dell’opera, ma non può rimanerne svincolato, pena la noia. Si immagini se avessi qui, sempre davanti agli occhi, L’orinatoio di Duchamp – alla lunga mi stancherebbe!

È l’opera a comunicare la vita: attraverso i motori invisibili costituiti dalle linee di un quadro, dall’armonia di una musica, dall’attività nervosa e muscolare di un’artista, dalla tensione fra i corpi degli attori su un palcoscenico… l’opera prende forma.

… come dai lineamenti prende forma un volto e, poi, un ritratto

Le espressioni ridisegnano la fisionomia di un volto. Quando faccio un ritratto cerco di catturare non tanto i sentimenti, quanto i gesti depositati su un volto, taciti rivelatori del carattere di una persona. Spesso parto da una fotografia che mi aiuti a cogliere le espressioni nascoste, profonde, l’istante fra due mezze espressioni di passaggio, il momento in cui, senza volerlo, si perde il controllo di ciò che si  vuole trasmettere.

Anche i paesaggi hanno un volto proprio. In particolare quello delle Marche, mio paesaggio natale, è sempre stato per me il luogo di maggiore ispirazione. L’ho ricostruito in altri paesaggi e ogni volta in ognuno di essi ho riscoperto parti di me.

Lo stesso è successo con il volto-paesaggio di Samuel Beckett. Mi sentivo come l’Alice di Lewis Carroll: entravo nel suo volto per poi uscirne, tratteggiare una linea, rientrarne e riuscirne sempre più ricco di pezzi di me trovati nel suo sguardo. Un giorno il nipote di James Joyce, che era stato suo testimone di nozze e di cui, come tutti, ricordava bene gli occhi azzurro ghiaccio, mi telefonò incredulo per il giallo con cui li avevo dipinti. Il suo era lo sguardo di un’aquila, risposi.

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