
Siamo nella primavera del 1963, quando Samuel Beckett semina il panico tra i propri collaboratori presentando la sua prima e unica sceneggiatura cinematografica: il cortometraggio “Film”.
Sei pagine di scrittura; un uomo alle prese con l’angoscia degli sguardi altrui e costretto infine a capitolare di fronte all’ineluttabilità dell’essere percepito, quantomeno da se stessi.
Il corto è quasi interamente muto. Come muto provocatoriamente risultava il teatro di Samuel Beckett, per il prosciugamento progressivo delle parole o per la loro disarmante inconcludenza; come muti erano i film del grande Buster Keaton, che è l’interprete selezionato.
Una proposta intrigante? “Keaton non faceva nessuno sforzo per nascondere la sua generale perplessità. La sceneggiatura non solo non era chiara, confessò, non era neppure divertente”. Così annota Alan Schneider, regista e compagno di Beckett, che dovette vivere la genesi dell’opera come un interminabile e tragicomico travaglio: l’evidente scetticismo della troupe, una serie di imbarazzanti intoppi tecnici, un recalcitrante chihuahua tra gli interpreti.
Beckett però fu incredibilmente calmo e pragmatico. E Keaton incredibilmente paziente e disponibile: fino a convincersi che probabilmente sì, era davvero valsa la pensa di realizzare quelle assurde sei pagine di sceneggiatura.
Un incontro bizzarro e fugace, quello tra Beckett e Keaton, eppure conturbante e così ricco di significato; un po’ come la pasta di cui è fatto “Film”.
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