«Se si vuole essere dei buoni critici, bisogna essere partigiani»: intervista a Maurizio Porro

L’ospite: Maurizio Porro, critico cinematografico e teatrale per Il Corriere della Sera, direttore del magazine online Cultweek. Dice di sé: «non ho ancora capito se la memoria sia un recinto paradisiaco o infernale, ma sono contento di aver visto e conosciuto sui palchi, sugli schermi, dietro le quinte e fuori una compagnia umana così straordinaria».

Quando è nata la passione per lo spettacolo, e come è diventato un lavoro?

Subito: potrei asserire che era nel mio DNA. Fin da piccolissimo ho sempre frequentato cinema e teatri: i miei genitori mi «strattonavano» un po’ ovunque, portandomi a vedere spettacoli di ogni tipo, dalla prosa (ricordo ancora lo zio Vanja di Visconti: avevo appena dieci anni!) al teatro di rivista. È così che sono entrato nel tunnel: crescendo, in seguito, ho aggiunto le mie scelte, e le mie passioni. Il teatro è stato sempre un grande amore: l’idea stessa di andarci, l’attesa prima dello uno spettacolo, l’amore per i grandi musical e i mattatori come Walter Chiari, Franca Valeri, Renato Rascel e Lauretta Masiero. Alle elementari, quando ti mettono a tuo agio invitandoti a cantare una canzone, io mi esibivo sulle note di Wanda Osiris: le maestre chiamarono i miei, molto preoccupate. Il fatto che sia diventato mezzo di “sopravvivenza” è del tutto causale: avevo conosciuto Giovanni Grazzini, che all’epoca aveva bisogno di un collaboratore. Mi piaceva quel che facevo, e a lui andavo bene: è da lì che è partito tutto.

Scrive sul Corriere della Sera da molto tempo: nel corso degli anni quali sono state le trasformazioni principali legate alla figura del critico di spettacolo?

Si è verificato, in maniera continua e cronometrica, lo scavalcamento di due priorità. Quarant’anni fa il giornale offriva un’opinione: una volta il pubblico si fidava del parere del critico, e aspettava il suo verdetto su uno spettacolo o un film. Gradualmente, questo “altoparlante” si è spento, e la priorità è stata destinata al chiacchiericcio legato non all’opera in sé, ma a chi la creava. E i giornali ne hanno approfittato, con la presunzione di pensare che il pubblico si lasciasse abbindolare e amasse solo le cose più becere, dimenticando tutto il resto. Negli anni ’70 e ’80 il giornalismo ha fatto scoprire gli scandali e le strategie della tensione, in anni difficili per il nostro paese; e la critica cinematografica ha contribuito alla diffusione di un cinema a metà tra l’autorialità e il gusto popolare, composto da autori che il pubblico avrebbe amato: Fassbinder, Loach, Almodovar. Se cominciassero oggi, dubito che avrebbero lo stesso sostegno di trent’anni fa. In pochi sanno che a teatro si mette ancora in scena Čechov, e quelli che lo sanno non si impegnano più di tanto per far sì che qualcosa cambi. La TV interessa più di Čechov? Probabile, ma non ne abbiamo la certezza, poiché i primi a intervenire sui gusti del pubblico sono stati i giornali e le televisioni, alla ricerca di numeri e ascolti, prim’ancora che lo decidessero i lettori stessi. Si è perso il gusto di scoprire e studiare le cose: si immagina molto in orizzontale, e poco in verticale. Si può lavorare sulla rete, sui canali digitali, sulla serialità (io stesso sono un grande fan di Downton Abbey) : è qui che si possono iniettare i sospetti che esista qualcosa al di là della superficie. Sintetizzare i voti in stellette, come si usa oggi, è divertente, e pare essere elemento di richiamo fortissimo per i lettori. È lì che risiede ormai quel residuo di fiducia rimasto: meglio di niente, è chiaro.

Quali sono, secondo lei, i parametri per scrivere una buona recensione?

Evitare il meccanismo, ormai usurato, di introdurre la trama. Non si dovrebbe fare mai: va bene riportare qualche accenno, giusto per capire se ciò che si sta andando a vedere sia una commedia o una tragedia, ma senza dilungarsi troppo. I lettori preferiscono non sapere: è per questo che ritengo importante superare questo tipo di schematismo che era ed è ancora, purtroppo, noiosamente imperante. Mi diverte creare collegamenti e riferimenti “intertestuali” tra film, spettacoli, attori e registi: lo trovo un procedimento organico e interessante, che permette al lettore di addestrarsi a seguire contesti storici e opere diverse tra loro, anche cronologicamente. Bisogna anche essere il più trasversali possibile, indagando campi e ambiti anche poco convenzionali: pensiamo al grande oblio che si è da sempre riservato al cinema pornografico, nei riguardi del quale l’attenzione mediatica e critica è sempre stata drasticamente ridotta (salvo rare eccezioni: Linda Lovelace insegna…). Un vero peccato: è come se certe pellicole non fossero mai esistite. L’elemento che ritengo più importante, tuttavia, è un altro: se si vuole essere bravi critici, bisogna essere partigiani. Prendere sempre una posizione, persino scomoda, se necessario. Mi sembra assurdo pensare di agire diversamente: tra cento anni, altrimenti, penseranno che abbiamo visto solo capolavori. E non è così.

 I suoi piaceri forti, al cinema e in teatro?

Non ho un genere particolare: sono felice di aver visto di tutto, da Macario a Rascel , da Strehler a Ronconi. Lo stesso vale per il cinema. E a chi mi chiede qual è, tra le due, la disciplina che preferisco, rispondo che si tratta di due passioni complementari, affini, complici. L’una non riesce più a esistere senza l’altra: sono legate da un rapporto profondissimo (e comune) di creazione. Poi, è chiaro, ho anch’io le mie preferenze: a teatro amo moltissimo Čechov, Pinter, Testori, Tennessee Williams. Per quanto riguarda il cinema, invece, ho da sempre una riconosciuta venerazione nei confronti di Federico Fellini: rappresenta l’idea del cinema, e i suoi film ancora oggi sono straordinariamente attuali, profezie sociali e formali di molteplici avvenimenti che avrebbero trasformato la faccia del nostro Paese. Sono dell’idea che, una volta girato un capolavoro assoluto come 8 ½, non si possa pensare di andare oltre. Un film che, sulla scia di Joyce, de-struttura e scompone le unità di spazio e tempo: non è da poco.

PORRO MOIA

Oltre a essere un giornalista, ha insegnato per molti anni anche all’Università: come valuta fino a oggi il suo lavoro con gli studenti?

 L’Università italiana ha molti difetti e non vive un bel momento, ma non nego che ci siano elementi più che positivi. L’aspetto comunicativo è quello che mi interessa di più: parlare con i ragazzi, ed educarli, nel corso delle lezioni, alla visione e alla conoscenza di opere e artisti che, altrimenti, difficilmente riuscirebbero a scoprire. È così, con mia grande sorpresa, che vengo a scoprire che la grande commedia musicale di Garinei e Giovannini e figure come Walter Chiari, Delia Scala, Bice Valori, Aldo Fabrizi e Wanda Osiris (ancora lei!) vengono ancora amati e apprezzati.

Si è mai annoiato del suo mestiere?

No, mai. Continuo ancora a vedere spettacoli e film in continuazione: spesso vedo cose belle, ancora più spesso cose brutte, presuntuose o che esauriscono le loro potenzialità dopo un quarto d’ora. A prescindere da tutto questo, no, non mi sono mai annoiato, non potrei. Rattristato e rammaricato, semmai: mi dispiace che non esistano più certe situazioni, certi contesti, certe figure. Ma sono contento di aver vissuto in un determinato periodo, di aver assistito a una temperie importante, con personaggi significativi come Visconti, Squarzina, Testori. È questo che vorrei trasmettere ai più giovani, un forma oggi inedita di vitalità, interesse e tensione culturale ed emotiva. Oggi può sembrare assurdo, ma un tempo resisteva nei bisogni primari dell’italiano medio.

One Comment

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  1. Non è vero che bisogna essere partigiani. Bisogna cercare disperatamente di essere obbiettivi, informarsi e informare, capire le ragioni di un’opera e del suo autore, ma senza mai piegare le ginocchia, senza mai bere senza sapere il contenuto e la forma di ciò che ti vogliono dare da bere. Non bisogna mai dire “sono d’accordo” o “sono un fan” ma “sono d’accordo ma…” o “sarei un fan ma….” . Il dubbio sia la guida e la massima libertà mentale l’unica forma di giudizio. Questa, secondo me, è la vera critica.

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