Clouds of Sils Maria

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di Giuseppe Paternò Raddusa

In una recente intervista sulla rivista online Filmidee,  il regista (fino al 1985 critico barricadero per i Cahiers du Cinéma) parigino Olivier Assayas sostiene che «siamo contemporanei alla totalità del cinema. […] c’è l’obbligo, per la critica, di ritornare a una riflessione sul medium. di un aggiornamento teorico su che cos’è il cinema e cosa non lo è, qual è la sua specificità, cosa vuol dire guardare un film in una sala cinematografica, qual è la relazione tra il reale e l’immaginario, la questione della costruzione dello spazio cinematografico. Oggi dobbiamo essere coscienti del momento storico in cui ci troviamo e riconoscere che c’è un’apertura immensa per ripensare il cinema». Riflessioni inderogabili, forse discutibili, che riverberano praticamente ogni intenzione di Sils Maria, presentato in concorso a Cannes e nelle sale italiane dal 6 novembre. Nonostante l’apertura immensa per ripensare il cinema cui fa riferimento Assayas,  Sils Maria è tuttavia conchiuso in un tenace manierismo barocco e suggestivo. La vicenda dell’attrice quarantenne Maria Enders, invitata a interpretare dopo molti anni un ruolo più scomodo e “maturo” nella pièce che ne aveva lanciato la carriera, si lega a doppio filo, geografico e filosofico, con l’impianto di riflessione dell’intero film. Diviso in tre blocchi mai troppo monolitici e immerso in dissolvenze che denunciano un formalismo ammiccante e non convenzionale, Sils Maria snoda il suo periglioso racconto tra i monti delle Alpi svizzere e il passo del Maloja, dove si consuma il dramma morale della protagonista, non più in grado di intervenire sul personaggio originario, adesso affidato a un’attrice di talento, ma vocata a scandali e amorazzi da tabloid.

SILS MARIA

Un dramma che si intreccia, sin dalle prime inquadrature del film, a una considerazione significativa sul potere dei dispositivi: gli I-phone, e i tablet, fino ad arrivare al teatro e soprattutto al cinema, sono strumenti plasmabili e in continua evoluzione, in grado di generare provocazioni e tumulti, ragionamenti e alienazione. La diva di mezza età e la sua giovane assistente americana non riescono a trovare un punto d’accordo sulle rispettive concezioni di cinema ed esistenza, soffocate dalla lettura e dalle prove della pièce: l’una non riesce a identificarsi con la mediocrità del personaggio che ha sempre detestato e con la trasformazione dei tempi che cambiano, l’altra è una mediocre per definizione, formulatrice di prosaici e sciatti ragionamenti arty da bignami della cultura che non intende vedere confutati. Uno specchio duplice e deformante; non resiste, come molti credono, il sottotesto camp di Eva contro Eva (1950) di Joseph L. Mankiewicz, con il quale tuttavia Sils Maria condivide alcuni tratti farseschi nei confronti del varco tra passato e contemporaneità, accentuato da precise scelte di casting: Juliette Binoche, come Maria, è una stella europea che ha trovato fortuna negli States, mentre Kristen Stewart interpreta colei che pagherebbe per vedere un film con Kristen Stewart, a sua volta realmente vincolata al gossip infuso e assimilato dalla giovane attrice che nel film è protagonista della pièce. E anche il testo teatrale, a sua volta, rappresenta un ulteriore dispositivo, che vorrebbe essere aperto ma che in realtà finisce per essere serrato: il teatro è solo teatro, chiosa la moglie del defunto drammaturgo, ed è nelle retrovie di questa luttuosa affermazione che, come da copione, la diva quarantenne prende ad addolcire le opinioni sul personaggio che tanto depreca. Assayas, sornione, fa la parte del furbo: non prende mai una posizione precisa, non si schiera né con lo snobismo decadente e malinconico, né con il semplicismo di Google, degli I-Pad e degli sciocchi che ritengono di fare arte con sorrisi smaglianti, ticket per rassegne di Rivette e un libro di Proust sul comodino. Gode, con sadismo controllato, quando i suoi personaggi soffrono – valorizzati dalle eccellenti prove delle sue interpreti, a partire da una Juliette Binoche ai massimi storici – e si lasciano assalire dai dubbi, e dalle epoche. Ne raccoglie cocci e sangue, in seguito, per accerchiarli del gradevole formalismo di cui sopra: ed è così che si spiegano le dissolvenze, il rock ralenti, le musiche di Häendel e Pachelbel, Nietzsche e l’eterno ritorno, i vestiti di Coco Chanel, gli straordinari paesaggi volutamente da cartolina, l’accumulo di nubi, le immagini di Das Wolkenphaenomen von Maloja (1924) di Arnold Fanck. Un amico, seduto in sala accanto a me, sostiene con sicumera che in fondo si tratta di cinéma de papa, tumore per eccellenza secondo i maestri della Nouvelle Vague. Non ha torto, ma non sono nemmeno sicuro che a questo punto la cosa mi disgusti più di tanto.

Clouds of Sils Maria, di Olivier Assayas, con Juliette Binoche, Kristen Stewart, Chloe Grace Moretz

in sala dal 6 novembre

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