
Metti una sera, a letto, Yona e Leviva Popukh: una coppia di mezza età, sdraiata su un talamo, si vomita addosso, e senza ritegno, insulti, frustrazioni e vaghi bagliori di umanità. Sono i protagonisti de Il lavoro di vivere, feroce commedia dai dialoghi brillanti firmata nei primi anni Ottanta dal drammaturgo israeliano Hanoch Levin (prematuramente scomparso nel 1999), che per due mesi, da ottobre a dicembre, verrà messa in scena al Teatro Franco Parenti per la regia di Andrée Ruth Shammah. Protagonista, uno dei più straordinari interpreti della scena teatrale italiana, Carlo Cecchi, affiancato sul palco da Fulvia Carotenuto. Delle opere di Hanoch Levin, in Italia, si è sempre visto poco. È incontestabile, tuttavia, che si tratti di una figura fondamentale per la drammaturgia del Novecento: autore dalla produzione ricchissima (che include sketches, cabaret, poesie, sceneggiature e una cinquantina di opere destinate al palcoscenico), è stato in grado di raccontare, in maniera autentica e irriverente, la tragicità del dolore umano.

Il lavoro di vivere è un testo conflittuale, spietato, tra i lavori più incisivi di tutta la sua carriera. Una commedia crudele, ironica e beffarda, dal ritmo secco e sincopato. I protagonisti sono bestie incapaci di amare: si sentono finiti, irrimediabilmente scaduti. Il marito è ossessionato da una morbosa fascinazione per il futuro e per il passato, la moglie è la rappresentazione vivente del presente che detesta, colei che lo pone davanti alla ‘pozzanghera’ che ha creato e sulla quale ha duramente investito. Una donna dalle molteplici sfaccettature, a partire dal nome, Leviva: in italiano può tradursi sia come ‘leonessa’, che come ‘frittella unta’. E quando il molesto Gunkel (Massimo Loreto) irrompe sulla scena per insinuarsi viscidamente tra i due, sembra che qualcosa, nella deriva della loro relazione, potrebbe trasformarsi.
Quella dei Popukh è una storia d’amore sfiorita, che diventa trincea di vituperio e d’infamia, di sarcasmo e disprezzo. Leviva e suo marito si immettono in un percorso drammaturgico che diventa quasi biologico: sulla scena il dramma mentale e sentimentale di Yona procede in parallelo a quello del suo corpo. «E allora chi è il problema?», chiede l’uomo alla moglie. «Tu. E non hai dove fuggire, perché dovunque vai ti trascini dietro te stesso». Umanità, nel lavoro di Levin, fa rima con zavorra. Il suo è un teatro che non ha (più) spazio per gli eroi, ma per i perdenti, per quei sommersi che non possono essere salvati. Le uniche forme di energia resistono, come virus impossibili da debellare, nel germe della violenza, dell’attacco e dell’insolenza. Sarebbe riduttivo prendere l’opera di Hanoch Levin e sintetizzarne lo spessore definendola fiera icastica di vanità. Il lavoro di vivere è questo, ma anche molto altro: veicolo di vitali cattiverie e passaggi altresì altamente poetici, dispositivo fondamentale per comprendere un autore scomodo e inspiegabilmente poco ‘frequentato’. Un cantore che, dai racconti di passioni e dolore, è stato in grado di mitizzare – seppure a suon di lacrime e rancori – le scarnificate tracce dei nostri ultimi legami con l’esistenza.

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27 novembre | 13 dicembre 2015
IL LAVORO DI VIVERE di Hanoch Levin
Uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah
Con Carlo Cecchi, Fulvia Carotenuto, Massimo Loreto
e con la collaborazione
per l’allestimento scenico di Gianmaurizio Fercioni
per i costumi di Simona Dondoni
Luci Gigi Saccomandi
Musiche Michele Tadini
Informazioni e prenotazioni: 02. 59995206
Teatro Franco Parenti, via Pier Lombardo 14, 20135 Milano (MI) http://www.teatrofrancoparenti.it
La critica a quest’opera teatrale è eccelsa! Coglie i dettagli più intimi dei protagonisti è dell’opera tutta! Complimenti!
L’ha ribloggato su Sik-Sik.