L’ospite: Claudia Cannella direttrice responsabile della rivista Hystrio dal 1998. Collabora con Il Corriere della Sera e Vivimilano, dove si occupa delle pagine dedicate al teatro. Dice di sé: «Amo i gatti e i viaggi. La curiosità dei primi mi porta a girare il mondo, ma anche a vedere moltissimi spettacoli, che poi sono tanti piccoli viaggi, dell’anima».
Come è nata la sua passione per il teatro, e come è diventata un mestiere?
Leggendo i testi: in quarta ginnasio, dopo aver notato un riquadro sulle pagine di un’antologia dedicato a Casa di Bambola di Henrik Ibsen, fui talmente colpita dai temi trattati che andai subito ad acquistarlo in libreria. Non si perdeva in noiose descrizioni, ma presentava didascalie brevi e molti dialoghi, che a me piacevano tanto. Ne lessi molti altri, con particolare passione per le tragedie greche. Quando mi resi conto che ciò che leggevo veniva messo in scena da qualche parte, cominciai a frequentare anche i teatri. La mia è stata una formazione abbastanza autarchica, che mi ha lasciato la grande libertà di poter vedere un po’ di tutto senza gerarchie particolari, ma anche il limite di aver perso occasioni importanti proprio perché priva di un “mentore”. Mi iscrissi all’Università di Pavia, seguendo un corso di studi che comprendesse lo studio della Storia del Teatro, e mi laureai in Storia del Cinema con una tesi su Medea di Pasolini. Nel frattempo avevo conosciuto due redattori di Hystrio, che mi avevano proposto di collaborare con loro: lì, grazie alla guida preziosa del fondatore e allora direttore Ugo Ronfani, imparai il mestiere. Mi insegnò come scrivere un pezzo, come trovare i titoli, come correggere le bozze e le cianografiche in tipografia prima di mandare in stampa il numero. Poco dopo, in modo casuale, iniziai la mia collaborazione a Vivimilano: passo dopo passo avrei finito per occuparmi, in maniera abbastanza estesa, della sezione dedicata al teatro di prosa. Intanto vinsi un dottorato di ricerca a Firenze in Storia dello spettacolo: un’esperienza interessante e formativa, che però mi fece anche capire che la vita della studiosa non faceva per me. Successivamente cominciai a collaborare anche alle pagine «Tempo Libero» del dorso milanese del Corriere della Sera quando Paolo Mereghetti, a lungo direttore di Vivimilano, ne fu nominato responsabile e chiese ad alcuni collaboratori di seguirlo. Nel 1998 «ereditai» Hystrio da Ugo Ronfani: quando la Ricordi, che fino ad allora pubblicava la rivista, fu ceduta al gruppo tedesco Bertelsmann e decise di «eliminarci», Ronfani rinunciò alla sua carica. Insieme agli altri collaboratori storici decidemmo allora di fondare un’associazione culturale per portare avanti Hystrio e le iniziative a essa connesse.
Qual è il segreto della longevità di Hystrio?
Io sono molto testarda e curiosa, sono una buona ascoltatrice e osservatrice e mi piace mettere insieme persone diverse. Circa cinquanta collaboratori da tutta Italia gravitano oggi intorno a Hystrio. La rivista non è mai in crisi di contenuti: sono spesso talmente tanti che abbiamo il problema di collocarli. Costruendo ciascun numero, infatti, quello successivo è già pronto a metà poiché, anche solo chiacchierando, si mettono già in cantiere le idee per il futuro. Essere dei buoni programmatori, essere costanti nel tempo, saper ascoltare, osservare: queste sono le chiavi della longevità. A questo, bisogna aggiungere anche un lavoro di cura delle persone con cui ho a che fare e dei collaboratori (che lavorano gratuitamente), perché l’unico patrimonio su cui possiamo contare è la condivisione di un progetto. Inoltre, per quanto mi riguarda, a monte c’è una grande passione per il mestiere. Nel mio caso, non è tanto quello di scrivere, quanto il lavoro di redazione, coordinamento e progettazione.
Ci racconta quello che succede prima di mandare in stampa un numero della rivista?
Prima di mandare in stampa un numero prendo le email di tutti i miei cinquanta collaboratori e chiedo loro se per il numero successivo abbiano idee o proposte. Quando rispondono, sto attenta ad accogliere e ad assegnare i compiti a seconda delle caratteristiche di ciascuno. Smistati tutti i pezzi e decise le scadenze, segue un mese di relativa tranquillità: ci dedichiamo al lavoro organizzativo della rivista e alla gestione dei siti, delle fan page, dell’attività promozionale, nonché delle domande per la ricerca di fondi che facciamo ogni anno alle istituzioni pubbliche e private. Dal secondo mese di lavorazione, ricevuti e redazionati i pezzi, la nostra grafica fa un’ipotesi di impaginazione, che poi supervisioniamo insieme. Dopo due giri di bozze, i materiali sono caricati sulla piattaforma online e inviati alla nostra tipografia, che realizza le cianografiche, una simulazione della rivista sulla quale applicare le ultime correzioni. La verifica della cianografica la facciamo in loco, e contemporaneamente facciamo la prova colore della copertina che è l’unica pagina illustrata e a colori della rivista: gli illustratori si sono accumulati negli anni in svariati modi, e mi diverto molto a testarne di nuovi.
Fa parte di numerose giurie, e Hystrio stesso ha un premio tutto suo: a cosa servono, in concreto, tutti questi premi?
Dovrebbero servire ad accendere dei riflettori sugli artisti, noti o meno noti, per rendere più conosciuto il loro lavoro. I premi che amo di più sono quelli che «illuminano» realtà meno note, ma mi rendo conto che è giusto premiare anche professionisti che abbiano già una carriera consolidata alle spalle. La durata nel tempo, l’autorevolezza di chi li organizza, la serietà e la correttezza deontologica dei giurati e la trasparenza dei sistemi di voto sono gli elementi che fanno sì che alcuni premi siano più rispettati di altri. Quelli che, ad oggi, ritengo essere i più importanti sono i premi UBU, il premio Hystrio e il Premio dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. I premi indubbiamente servono ma, se non c’è un minimo di collegialità tra chi organizza e chi fa parte della giuria, non mi interessano. Capisco che una simile gestione sia impegnativa, ma non sono un «bancomat» del voto, non mi basta ricevere soltanto delle terne da votare. Avrete letto delle recenti polemiche, in merito ai premi UBU, tra me e la giornalista Anna Bandettini. Credo che l’Ubu, di cui sono giurata da quasi vent’anni, abbia bisogno di un rinnovamento che, dopo la morte di Quadri (che il premio se lo era inventato e quindi poteva farne quel che voleva), ne possa salvaguardare l’autorevolezza: penso banalmente a un regolamento che ne renda trasparente la gestione, il sistema di voto, la composizione della giuria.
Può darci un giudizio spassionato sulla scena teatrale milanese?
Milano è senza dubbio la capitale del teatro in Italia: nel tempo si è creato un tessuto molto forte, ma anche alcune rendite di posizione ormai logore che dovrebbero cedere il passo a realtà più giovani o, semplicemente, più meritevoli. È la città con il maggior numero di sale dove poter vedere teatro a livello professionistico, dal Piccolo ai teatri decentrati delle periferie. La concorrenza, in un contesto del genere, è spietata: sopravvive chi è riuscito a costruirsi un proprio pubblico attraverso un’identità forte e riconoscibile, sia nelle scelte di programmazione che nella gestione. Funzionano il Piccolo, il Franco Parenti, l’Elfo Puccini, e tutti quei teatri più piccoli che si sono “attrezzati” in questo senso. Penso al Teatro i, al Teatro Ringhiera, al Teatro della Cooperativa: hanno poetiche ed estetiche molto diverse fra loro, dal teatro di ricerca a quello di impegno civile e sociale, ma sono stati capaci di costruirsi un pubblico affezionato. Altri si barcamenano, e arrancano faticosamente sopravvivendo grazie a privilegi e convenzioni ministeriali ottenuti trent’anni fa, altri ancora presentano evidente confusione nella programmazione, inerzia e incapacità di lavorare sul territorio.
La stagione dei Festival si avvicina: ne ha uno che preferisce? Quali consiglierebbe?
Un festival che amo molto, anche per l’atmosfera che si respira, è Primavera dei Teatri, a Castrovillari: si occupa di drammaturgia contemporanea italiana ed è molto compatto, sia nelle scelte di programmazione che nella location. Tutti gli spettacoli si svolgono nella cornice di un vecchio convento e, nei locali limitrofi, ci si ritrova spesso tra artisti, operatori, giornalisti, anche solo per consumare un pasto tutti insieme. Mi piaceva molto Inequilibrio Festival, a Castiglioncello, finché era diretto da Andrea Nanni, ma quest’anno non so come sarà – sebbene il posto, al di là della manifestazione, sia incantevole. Ho amato molto Santarcangelo dei Teatri, ma adesso mi sembra orientato a un certo tipo di teatro a mio avviso molto autoreferenziale. Sono molto interessanti il Festival delle Colline Torinesi, Teatro a Corte, sempre a Torino, il Castel del Mondi ad Andria, B Motion a Bassano e almeno una volta nella vita vale la pena di andare a Monticchiello, dove una comunità mette in scena annualmente un autodramma nella piazza del Paese, per un mese intero, oppure a Volterra, all’interno del carcere dove lavora la Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo. Non amo i festival organizzati nelle grandi città, in cui gli spettacoli si sovrappongono e disperdono, né quelli abnormi, come Avignone o Edimburgo: mi frastornano. Una volta nella vita, e va bene così!
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