L’ospite: Sara Chiappori è giornalista per La Repubblica, esperta in critica dello spettacolo. Dice di sé: «Faccio la giornalista perché credo che raccontare le cose sia un modo per provare capirle. Per la mia regola aurea ringrazio Samuel Beckett: sbaglia, sbaglia ancora, sbaglia meglio».

Quando nasce la passione per il teatro? Chi riconosce come maestro nell’ambito della critica teatrale?
Sin da bambina: ho avuto la fortuna di avere un padre appassionato di teatro. Il primo spettacolo, Il Giardino dei Ciliegi diretto da Giorgio Strehler, l’ho visto a sei anni: leggenda vuole che per giorni girassi vestita di bianco come Valentina Cortese. Ad appena dodici anni, inoltre, ho vissuto un’intensa esperienza con un gruppo di ricerca di derivazione grotowskiana, L’Avventura. Dopo la laurea in Filosofia (con una tesi sul concetto di azione teatrale da Stanislavskij ad Artaud), cui ha fatto seguito un’esperienza all’estero e un breve periodo di lavoro nell’editoria, sono entrata in contatto con Anna Bandettini, all’epoca caposervizio cultura e spettacoli alla redazione milanese di Repubblica, che mi spedì allo Spazio Zazie per recensire uno spettacolo: articolo dopo articolo, sarebbe diventata una professione a tutti gli effetti. Per quanto riguarda i maestri, appartengo a quella generazione che non ne ha mai avuti, e si è dovuta accontentare di punti di riferimento “indiretti”: nel mio caso, Giovanni Raboni e soprattutto Franco Quadri. Nessuno può pensare di fare questo lavoro senza confrontarsi con quello che ha rappresentato in termini di rivoluzione dell’idea critica: era un critico partigiano, un uomo di intelligenza sopraffina e cultura straordinaria.
Critica e giornali: quanto spazio c’è per i giovani e come conquistarselo?
Non c’è spazio, in generale, per la critica sui giornali. Io stessa non mi definisco una “critica teatrale”, ma una giornalista che ogni tanto prova ad esercitare un pensiero critico rispetto a quello che scrive. Chi bussa alla porta di un giornale con l’aspirazione a occuparsi di critica viene spedito all’uscita, e nemmeno troppo gentilmente. Questo vale per il teatro, ma anche per il cinema: sui giornali, ormai, c’è uno slittamento per cui si ritiene che non ci sia bisogno della competenza, preferendo invece la firma importante, il racconto da tessere intorno allo spettacolo e al film, etc. La critica pura, fatta di autori che si occupano solo di quello, non esiste più.
Quali priorità deve avere il critico di oggi per non smarrirsi e confondersi nel magma delle opinioni?
La curiosità e un minimo di inquietudine, anche assumendosi il rischio dell’errore, sono le doti principali: bisogna evitare di cadere nella routine, spettro di qualsiasi professione creativa. È fondamentale, inoltre, capire che si scrive per il lettore, in grado di distinguere benissimo un’opinione con una sua forza teorica da quello che è mero chiacchiericcio. Negli ultimi anni, tuttavia, il corto circuito tra critici e artisti, impegnati a parlarsi addosso, ha trascurato il lettore/spettatore: è questo uno dei motivi per i quali la critica teatrale è praticamente sparita dai giornali.
Il rapporto con i teatri e gli uffici stampa è una fonte di pressione per il critico? Gli ruba un po’ della sua indipendenza?
Qualsiasi lavoro che abbia a che fare con la comunicazione è un lavoro di relazioni: compreso quello dell’ufficio stampa, un mestiere delicato e difficile. I rapporti istituzionali sono molto scivolosi, e richiedono prudenza e galateo da entrambe le parti. Proprio per le relazioni personali che si vengono a creare, per il critico è difficile essere completamente obiettivo. Il teatro è irripetibile e aleatorio, ed è naturale che il critico sia influenzato dalla sua condizione nel momento in cui osserva. Il problema è articolare ragionamenti più approfonditi attorno al lavoro di qualcuno: io, se ho antipatie spiccate verso un autore o regista (che sono normali e umanissime), preferisco non scriverne affatto. Gli artisti sono suscettibili, talvolta antipatici, ma anche i miei colleghi in qualche occasione abusano del proprio ruolo: credo che recensire sia prima di tutto un esercizio di comprensione di ciò che il critico va a vedere, decodificando l’oggetto analizzato e aiutando il lettore a comprendere, ancor prima di criticare.
Qual è lo spettacolo migliore di cui ha scritto nell’ultima stagione?
Glaube Liebe Hoffnung, davon Horváth e con la regia di Christoph Marthaler, al Piccolo: in scena il teatro tedesco per eccellenza, rappresentato con rigore esemplare da un gruppo d’attori di grande spessore. Uno spettacolo completo e totale, che diventa visione e drammaturgia pura. La componente meta-teatrale, che non va mai a discapito della pulizia e della precisione, fa emergere fa emergere la ferocia del contrasto tra le modeste aspirazioni della gente comune e l’ottusa brutalità di un sistema sociale in disgregazione. Senza ricattare lo spettatore, ne rispetta l’intelligenza e gli richiede concentrazione. Perché il teatro non è solo evasione: a questi livelli è pensiero in azione.
Quali sono a suo giudizio le letture, le attività e le esperienza imprescindibili nel percorso formativo del giovane critico?
È fondamentale conoscere la storia del teatro, ma soprattutto leggere i testi, a partire dai classici greci fino ad arrivare ai grandi del Novecento: da un punto di vista teorico La mia vita nell’arte di Stanislavskij, Il teatro e il suo doppio di Artaud, Per un teatro povero di Grotowski, L’attore biomeccanico di Mejerchol’d e in generale tutti gli scritti teorici dei maestri eretici del ‘900, che scardinano la tradizione ma dopo averla molto ben assimilata, senza dimenticare quelli di Eugenio Barba, le note di regia di Strehler e il suo carteggio con Grassi, le raccolte di Harold Bloom su Shakespeare, il romanzo Infinite Jest di David Foster Wallace (per i molteplici riferimenti ad Amleto) e Il teatro e il suo spazio di Peter Brook, opere che chi si occupa di teatro non può non conoscere.

Prima vennero i critici puri, poi i giornalisti che si occupavano di critica: come saranno i critici di domani? Che cosa vedranno? Di che cosa scriveranno? Su che cosa si documenteranno?
Vedremo sempre meno spettacoli mastodontici (per motivi economici); sarà assente l’idea di regia critica (nonostante il talento di registi come Latella e Binasco), che in Italia è morta con Massimo Castri, e la danza, che sente meno il peso della “letteratura”, avrà maggiore libertà. C’è un grande dibattito sul futuro della critica: la componente più tradizionale, in un certo senso, è morta, non esistono più distinzioni e, ricalcando quanto succede in politica, si avverte il bisogno di elaborare nuove categorie per descrivere la realtà. Il ricambio generazionale ha avviato delle trasformazioni: sul fronte teatrale c’è un’ipertrofia di produzione e vitalità, ma molta confusione. Ariane Mnouchkine, che ho recentemente ascoltato, ha detto bene: «noi eravamo di meno, e avevamo maestri che erano felici di vederci crescere». In questa guerra tra generazioni, la mia ha commesso clamorosi errori di scarsa ambizione, limitandosi a crescere all’ombra di chi l’aveva preceduta. E il vostro disincanto, che deriva dalla sparizione dell’ideologia, può solamente esser d’aiuto. Avete un grande vantaggio: vivete sulle macerie. E, forse, questo potrebbe essere da stimolo per la ricostruzione.
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