L’Amico Americano

di Andrea Sartori
di Andrea Sartori

Part III – The Woman Who Lost Her Soul: intervista a Bob Shacochis, finalista al Pulitzer 2014

 

Bob Shacochis – un’origine lituana inscritta in un cognome raro anche per un americano – è il docente di scrittura creativa che, nell’appena concluso spring semester, istruiva i nove advanced students della Florida State University di Tallahassee: Fatima “Fati” Z. Ahmed, Taylor Collier, Jessica Gilbert, Dyan Neary, Misha Rai, Gary Sheppard, Lindsay Sproul, Adam Weinstein.

Nato nel 1951 in Pennsylvania e cresciuto in un sobborgo di Washington DC, Shacochis lo scorso aprile è stato fra i tre finalisti del Premio Pulitzer 2014 per la fiction, con il fluviale romanzo-mondo The Woman Who Lost Her Soul (Atlantic Monthly Press).

Il racconto è disteso su 50 anni di storia del secolo scorso ed è ambientato in tre continenti – dalla Croazia ad Haiti (dove l’autore è stato embedded come reporter di guerra negli anni ‘90), dall’Africa alla Turchia, facendo ritorno alla Croazia. Sono queste, assieme alla Florida, le tappe d’un errare caleidoscopico che va alle radici non solo storiche e geo-politiche, ma soprattutto psicologiche, del tratto distintivo della politica estera americana successiva all’11 settembre: la guerra al terrore.

Conversando con lo scrittore e con la moglie Barbara “Catfish” Petersen, avvocato e presidente della First Amendment Foundationnella loro villetta di Tallahassee a distanza di sicurezza da downtown, Shacochis riconduce idealmente il proprio lavoro alla scuola dei post-colonial studies. Tuttavia, non diversamente da Thomas Pynchon o Don De Lillo, non disdegna di cavalcare una versione aggiornata della conspiracy theory. Lo fa con un tocco peculiare, che lo caratterizza sia rispetto ai post-colonial sia rispetto agli apocalittici post-modern.

Bob Shocachis (foto di Andrea Sartori)
Bob Shacochis (foto di Andrea Sartori)

Egli infatti non è solo estremamente critico verso il fenomeno generale della «narcotizzazione culturale» – sono le sue parole – con cui gli USA consolidano la propria supremazia sull’altro, «determinando nei popoli un’assuefazione alla parte peggiore della cultura americana, quella alimentata da un capitalismo senza coscienza». Né Shacochis si limita a flirtare con la paranoia e con oscure entità impersonali che presiedono ai destini dell’uomo, come la vulgata post-moderna richiederebbe. L’ex grad student dello Iowa Writers’ Workshop adopera infatti nell’ultimo romanzo una sontuosa architettura narrativa, per ricostruire a posteriori le sfaccettature della psiche della donna menzionata dal titolo – non di un astratto Impero – misteriosamente uccisa ad Haiti nelle apparenti vesti di giornalista freelance.

La donna, non molto prima d’essere assassinata, s’era rivolta con il nome di Jackie Scott all’avvocato per i diritti umani Tom Harrington, perché intercedesse con un prete voodoo in grado d’aiutarla a ritrovare la sua anima. Per l’agente dell’FBI che successivamente ha incaricato l’avvocato di indagare sull’omicidio, Jackie non era Jackie, ma Renee Gardner. Ancora diversa è l’identità della presunta giornalista quando con un altro balzo all’indietro viene ripercorsa la sua tarda adolescenza in Turchia, all’ombra d’un padre che aveva motivi profondi per istruirla alla menzogna e alla doppiezza, e lei si chiamava Dorothy Chambers. Qui, nel rapporto con il padre, patriota americano d’origine slava e ciecamente anti-islamico – la cui esistenza era stata sconvolta dall’odio religioso quando era bambino, nella Croazia della seconda guerra mondiale – si gioca l’indecidibile rincorsa tra la provenienza e il destino, tra il passato e l’oggi, tra il trauma che sta alle spalle e il compito inane del suo scioglimento.

Come ha scritto Ron Charles sul New York Times, dire che le centinaia di pagine (ciascuna delle quali è «miracolosamente essenziale») del romanzo di Shacochis tessono la fitta trama di una spy story, «sarebbe come sostenere che Moby Dick è un racconto sulla pesca».

Se il capitano Achab non è solo un fisherman, gli uomini dell’intelligence che circondano Jackie-Renee-Dorothy sono in vario modo artefici o testimoni d’una crisi che travalica i confini di un genere. È la realtà a opporre resistenza al pensiero, facendo incappare chi legge nella difficoltà quasi metafisica d’accedere a un vero senza ombre.

A ben vedere, dice Shacochis, «The Woman Who Lost Her Soul è un romanzo che pone una domanda tanto semplice nella sua brevità, quanto ardua per il tipo di risposta che richiede: chi è una vittima? Jackie-Renee-Dorothy è sicuramente una vittima, del padre innanzitutto. Possiamo dire lo stesso dell’America? L’America è ad esempio una vittima di Al-Queda? Direi di no. O meglio, nessuno vuole essere una vittima, nessuno vuole essere schiacciato per sempre sul proprio trauma, né essere indefinitamente identificato con esso, neppure gli Stati Uniti. Tuttavia, nel fare ciò, nel tentativo di superare il suo ennesimo trauma, quello dell’11 settembre, l’America sta facendo del male agli altri e a se stessa, tanto male, più di quanto gli altri abbiano fatto a lei in passato».

La copertina di The Woman Who Lost Her Soul (
La copertina di The Woman Who Lost Her Soul (Atlantc Monthly Press) 

Una poco americana assenza di happy end, dunque? Sì e no.

Mi viene da pensare che la cornice narrativa di The Woman Who Lost Her Soul è in fondo null’altro che il racconto reso da Tom Harrington alla moglie, il tentativo sofferto di trasmetterle l’esperienza di ciò di cui lui è stato testimone in uno dei luoghi più disperati dell’Occidente, in uno di quei posti che fanno da contrappunto alla quiete domestica di ciascuno di noi. Che cosa può allora aver fatto Shacochis, se non riversare dapprima nella domestcity dei suoi stessi rapporti familiari, poi nel dialogo con la piccola comunità dei suoi studenti, quindi nell’esposizione alla cerchia più ampia dei lettori, una tollerabile misura dell’orrore della storia, di cui egli è stato più volte osservatore, come inviato di guerra?

Domesticity. A Gastronomic Interpretation of Love è il titolo d’una ironica raccolta di pensieri sul vivere in comune, sulla radice duale d’ogni koinè politica, che Shacochis scrisse nel 1994 (giunta alla terza edizione nel 2013).

Forse è qui, sembra alludere lo scrittore, nella sfera domestica delle relazioni più prossime, che è possibile ridare fiato a una nota alta della politica. A un’idea del vivere insieme, che ben s’adatta all’impegno civile profuso da chi, in questo Paese – magari già disilluso nei confronti di Obama – non cessa di sperare in una conciliazione di capitalismo e giustizia sociale.

In un capitalismo che non danni del tutto l’anima degli individui.

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