L’ospite: Giacomo Giossi è il caporedattore di doppiozero, sito culturale tra i più seguiti in Italia. Ha collaborato, inoltre, con periodici, quotidiani e blog come Blow-Up, L’Indice dei Libri e La Stampa. Dice di sé: «Qualunque cosa debba fare provo a farla sempre e solo come un dilettante».

Qual è stato il percorso che l’ha portata a doppiozero?
Quando è nato doppiozero – nel 2011 – vivevo a Parigi : da lì ho iniziato a collaborare come autore, sfruttando la possibilità di poter raccontare degli aspetti della città interessanti e non particolarmente noti. Fu creata una sezione appositamente per quei racconti, e molti collaboratori a venire avrebbero uniformato il loro stile al mio. Ho riscritto il primo pezzo decine e decine di volte, ma da quel momento ho reso sempre più assidua la mia «frequentazione», fino a quando mi è stato chiesto di entrare nella redazione per gestirla e coordinarla.
Cosa raccontava di Parigi?
Gli aspetti ‘particolari’, con un taglio culturale. Banalmente si dice: «prendi un libro che è uscito e racconta qualcosa che sta fuori quel libro». E con il primo articolo, partendo da un libro di Grégoire Thonnat, Petit histoire du Ticket de métro parisienn – considerazioni molto ‘francesi’ sulle trasformazioni dei biglietti della metropolitana parigina – raccontavo i comportamenti e le abitudini delle persone che frequentavano le stazioni della metro, legandoli alla copertina dell’edizione Le Livre de Poche di Zazie nel métro di Raymond Queneau, con un ticket che fa da ‘corpo’ al disegno della protagonista. Un aspetto che avevo considerato – e che poi non ho inserito nella versione finale dell’articolo – era collegato a una particolare consuetudine delle bobo parigine: la forma del biglietto, stretta e lunga, era considerata come una sorta di unità di misura per la depilazione delle parti intime femminili. L’abitudine era ‘emersa’ quando un giovane regista, durante le riprese di un film con parecchie scene di nudo sulle Comuni negli anni Settanta, si trovò a dover gestire un gruppo di attrici depilate su modello del ticket, creando non pochi problemi alla credibilità della scena e alla produzione, che ha rimandato le riprese di diverse settimane…
Torniamo a doppiozero. Nella presentazione del sito vi definite «uno spazio online di critica culturale»: può spiegarci concretamente cosa intendete con questa espressione?
Intendiamo considerare trasversalmente i temi della contemporaneità: tutto ciò che è contemporaneo rappresenta tutto ciò che siamo in grado di analizzare e criticare con i mezzi, le capacità e le giustificazioni adatte. L’idea è quella di una critica che intervenga con un taglio generalmente propositivo e mai polemico, libera da quei conformismi che non offrono informazioni o letture inedite, incapaci di costruire un retroterra culturale all’oggetto analizzato. È fondamentale ricercare l’equilibrio tra l’analisi accurata e la lettura “emozionale”: noi ci proviamo, dando estrema fiducia alla figura dell’autore e alla sua possibilità di interpretazione.

Doppiozero riconosce importanza fondamentale alla forma: quali sono i vostri riferimenti estetici?
La direzione culturale di doppiozero è data principalmente dai due direttori, Marco Belpoliti e Stefano Chiodi. I riferimenti estetici derivano dalla loro formazione: in parte Umberto Eco, in parte Achille Bonito Oliva. C’è una forte attenzione semiologica, e difficilmente i collaboratori appartengono a maniere definite: non c’è militanza in senso stretto, ma capacità di produrre pensieri e ragionamenti attraverso l’utilizzo di strumenti critici. Penso alla figura di Gianfranco Marrone, allievo di Eco e principale esperto di Roland Barthes in Italia: su Doppiozero affronta con uguale disinvoltura temi di carattere linguistico, semiologico, antropologico…
Come è organizzato il lavoro di redazione? Ci racconta una giornata-tipo?
Gli articoli sono pubblicati nell’arco di una/due settimane dall’arrivo in redazione, a seconda della loro tipologia e del legame con l’attualità; raccolti e sistemati dai responsabili delle rubriche, sono inseriti in un magazzino e poi integrati nel calendario. Un buon 50% dei pezzi appartiene a sezioni e rubriche già precalendarizzate; l’altro si costruisce attraverso redazionali, scambi di mail, citazioni individuali. La giornata-tipo comincia all’alba, quando gli articoli – cinque per tutti i giorni feriali, più pezzi d’occasione durante il weekend – vengono pubblicati online; alle 9.30/10.00 chi si occupa della programmazione sui social (Facebook, Twitter, Google Plus) li condivide sulle varie piattaforme. Durante la giornata il lavoro è scandito dalla revisione e recupero dei pezzi, e dal contatto con gli autori, con i vari coordinatori delle aree (a seconda delle esigenze) e con i partner editoriali e culturali.
Domanda “interessata”: si può fare un uso strategico dei social network, ormai imprescindibili, senza rischiare di scivolare nel conformismo?
Non bisogna avere preconcetti su dove si muovono i pubblici, ma tentare di percepire la curiosità della gente e chiedersi perché qualcosa funziona e qualcosa no. Non tutte le scritture possono essere forzate in maniera ossessiva per inseguire una distribuzione adeguata; è tuttavia molto importante riuscire a emergere in mezzo alle migliaia di persone che gravitano sui social network, molte delle quali non sono interessate solo alle sciocchezze. E non è per niente facile…

Siete fra i blog culturali più seguiti d’Europa: quali sono i segreti più segreti del vostro successo?
Avere linee guida ben definite ci permette di essere uno spazio fortemente aperto: abbiamo coinvolto coerentemente tutti gli autori che collaborano con noi, evitando di creare per ognuno piccoli spazi sterili e senza seguito. Da noi trovano spazio i grandi nomi, che magari vogliono scrivere lontani da vincoli o logiche editoriali, e collaboratori poco – o affatto – conosciuti. Sulla stessa pagina si possono trovare gli articoli del signor nessuno a fianco di quelli firmati da Umberto Eco: non ci spaventa pubblicarne di più zoppicanti, perché sappiamo di poter bilanciare con voci più forti. Ci interessa inseguire un pubblico più vasto possibile: senza imporre cifre o nomi, diamo spazio a chi un nome ancora non ce l’ha. Con un’importante convinzione: il lettore può diventare autore. E attivare il lettore significa attivare una coscienza critica.
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