Il teatro sopra Berlino

castellari goggio
Di Marco Castellari, a cura di Alessandra Goggio



Andare a teatro a Berlino significa scegliere (e con ciò rischiare). La quantità di spettacoli così diversi offerti ogni sera sulle scene della capitale tedesca è tale che non solo non è pensabile, come è ovvio, vedere tutto (volendolo), ma nemmeno vedere tutto quello che uno vorrebbe. Qui il cartellone è strutturato diversamente che in Italia: gli spettacoli vanno in prima rappresentazione e tornano poi in scena di volta in volta sul lungo periodo, anche oltre la singola stagione. Sì può discutere su quale organizzazione sia più vantaggiosa per il pubblico; di certo porta a gestire in maniera differente i propri Theaterbesuche. A Milano ad esempio, se non si va alla prima, si ha un determinato periodo di tempo – spesso breve – per assistere alla messinscena di cui magari si è letto, sentito, subodorato. A Berlino, sempre se non si va alla prima, occorre (oltre che leggere, sentire, subodorare) prendere l’agenda e annotarsi gli appuntamenti successivi, di lì a settimane o mesi, e costruirsi il proprio cartellone. Chissà, i veteroilluministi potrebbero intravvedere una maggiore Mündigkeit, una consapevole maturità (effettiva o pretesa), nel pubblico prussiano – Kant bussa alla porta e forse sorride.

BERLIN B:W

Fatto sta che, in un modo o nell’altro, in un luogo o nell’altro, capita di ritrovarsi senza troppo averlo voluto a vedere uno spettacolo bellissimo o, al contrario, di vivere una sonora delusione dopo (o in causa di?) grandi aspettative. Come pure capita (spesso) di stare nel mezzo, tra visi noti e sentimenti confusi, per dirla con Botho Strauss. Per chi come me è quassù solo da un paio di mesi, con qualche scappata a sud delle Alpi, la fenomenologia è già piuttosto ampia. Molto di quanto mi ero ripromesso di vedere non l’ho ancora visto: qualcosa deve ancora debuttare, in altri casi non ho trovato il biglietto per prime rappresentazioni. Attendo per esempio di gustarmi – Ah, le deviazioni professionali! Ah, le eccessive attese! – un Brecht inedito, Hans im Glück al Berliner Ensemble à http://www.berliner-ensemble.de/repertoire/titel/96/hans-im-glueck (il titolo ricalca quello della fiaba dei fratelli Grimm La fortuna di Gianni) e un Tabori d’occasione, per il centenario della nascita: I Cannibali nello stesso teatro in riva alla Spreaà http://www.berliner-ensemble.de/premieren).

BERLINER ENSEMBLE INTERNO
Berliner Ensemble, veduta dall’interno.

Ho visto invece un pot-pourri di cose parecchio eterogenee: non sono abbastanza kantiano, evidentemente, per costruirmi un cartellone rigoroso. Ho spaziato dal Settecento allo stretto contemporaneo passando per il secolo scorso – che nemmeno a teatro, va detto, è davvero scorso. Sì perché, a cercare un filo rosso in queste scorribande teatrali, un tratto evidente è che siamo (ancora) tutti novecenteschi, anzi sessantasettantaottantini, al massimo un po’ novantini. Sarà una questione generazionale per registi attori & co. (un po’ anche per il pubblico, admittedly), sarà che tutta questa differenza con il sedicente ventunesimo secolo oggi a teatro non c’è, diciamocelo.

L’Iperione di Hölderlin, eremita in Grecia attorno al 1770, l’ho ritrovato come terrorista degli anni di piombo, rimodulato sulle varie declinazioni del femminile e stretto tra questioni animali(stiche) e uman(istich)e nella spiazzante regia di Romeo Castellucci. Paradossale: a fronte di quei rimasugli di Novecento, il messaggio più attuale finiva per rimanere nelle poche parole del romanzo salvate per la scena, col “presente che, simile a un ululante vento del nord, passa sulla fioritura del nostro spirito e la brucia in boccio”, o con la tremenda invettiva ai tedeschi, scilicet ai moderni (http://www.schaubuehne.de/de/produktionen/hyperion-briefe-eines-terroristen.html/m=221).

Oltre duecento anni dopo Hölderlin, Falk Richter (classe 1969) scrive oggi e parla certo dell’oggi, le sue nuove identità mobili (sessuali, culturali & co.) partono però dai Bronski Beat e run away, corrono via, sai che novità, dalle strette borghesi e dagli stereotipi dominanti – Small Town Boy ha debuttato al Gorki in gennaio ed è comunque per la sua vivace teatralità fra le cose migliori che si possono vedere qui e oggi à http://www.gorki.de/spielplan/small-town-boy/.

Maxim-Gorki-Theater
Gorki Theater

Il bravo e post-postmoderno Patrick Wengenroth (classe 1976), che si autodefinisce Realisator (“regista”, si sa, fa troppo Novecento), lavora su Fassbinder e lo trucca più Anni Settanta che mai – la sua Petra von Kant (no, non è parente) piange insomma sul suo tappeto floccato le lacrime amare che già conosciamo. Lo spettacolo però merita di essere assaporato, non solo per la chicca dello stesso Wengenroth en travesti a interpretare la vessata Marlene: à http://www.schaubuehne.de/de/produktionen/die-bitteren-traenen-der-petra-von-kant.html/m=221.

PETRA
Le lacrime amare di Petra von Kant di Rainer Werner Fassbinder  sul palco della Schaubühne, per la regia di Patrick Wengenroth

Altro filo rosso: recitare va bene, ma soprattutto… cantiamo! Non fanno altro che intonare songs, Lieder & co., questi attori a Berlino, soprattutto alla Schaubühne. Chapeau! Non tutti sarebbero in grado di tenere il passo e nemmeno, ogni tanto, di averne il coraggio, anche perché il regista-masochista ha voglia a insistere ma alla fine non è lui a doversi sgolare davanti al pubblico (a meno che non sia un Realisator, infatti il buon Wengenroth apre e chiude la sua Petra cantando, non male).

C’è poco da stupirsi, certo, che cantino nel Black Rider, quasi-musical di Borroughs/Waits/Wilson (ma per dirla tutta: c’era proprio bisogno di cantare in inglese e poi parafrasare in tedesco? Orsù che fatica). È ancora un ripescaggio dal secolo scorso, per altro, questa regia di Friederike Heller (classe 1974) in scena da oltre un anno: http://www.schaubuehne.de/de/produktionen/the-black-rider.html).

Schaubuehne
Schaubühne am Lehniner Platz

E cantano a proposito (e molto molto bene!) anche nel suddetto Small Town Boy di Falk Richter, dal synth pop britannico al sempreverde melodico turco – già qui poi, e ancora di più nel Fassbinder di Wengenroth, fa capolino quel vecchio lupo teatrale di Brecht, Novecento purissimo. Perché quando la notevole Lucy Wirth (alias la carrierista Karin) prende il mano il microfono, lo straniamento serpeggia nel pubblico e almeno per un attimo, scacciata l’immedesimazione, la povera Petra non è davvero più soltanto una vittima.

Fra una canzone e l’altra, direbbe il malevolo, si scaccia anche la noia per il già visto, già troppo visto. O forse anche il fastidio per quello che in fondo non si sarebbe davvero voluto vedere. Prima di arrivare a questi cinismi da critico sconsolato, però, sarà meglio continuare le scorribande teatrali a Berlino.

Marco Castellari

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