di Maria Teresa Santaguida (1988) laureata in Scienze dell’Antichità all’Università Cattolica di Milano
Berardi chiede “ma alla fine voi l’avete capito Amleto che cosa vuole? E certo che se non l’avete capito al Parenti, lasciate perdere!”. Evoca l’istinto di Amleto in quel grido popolare: “Distruggila, Gesù, ‘sta malarazza!”: il desiderio di annientare un mondo in cui non ci si riconosce e che un attore convoglia in energia sul palco. Gianfranco è un mattatore, uno di quelli che starebbe bene allo Zelig, ma è troppo istrionico per essere “solo” un comico. Lui, al Café Rouge, è il protagonista, assieme alle canzoni: Amleto, cantato alla chitarra e alla fisarmonica dagli altri due “matti”, diventa una filastrocca, come quelle di De Andrè o lo stornello popolare “Tu ti lamenti ma che ti lamenti? piggjia lu bastuni e tira fora li denti”, che è un po’ la vita di Amleto, detta alla siciliana. Diventa la storia di un attore che ha cominciato a fare le pulizie in teatro o di uno dei tanti “stagisti” sfruttati e non pagati. Diventa la storia di uno “che in fondo voleva solo gioire, amare”: e lui, l’attore, ce lo dice così, con una semplicità disarmante, con quell’accento pugliese volutamente malcelato, con quell’estro da padrone dello stage (che, detto all’inglese, significa ‘palscoscenico’, ma che si legge sempre “fame e fatica”, in italiano). Spettacolo strepitoso, perfetto nei tempi comici, diretto nella comprensione, popolare come Plauto: come dev’essere il teatro, che è nato da quattro assi di legno, messi su nella confusione dei ludi, e Terenzio, che si lamentava pure del “clamore maximo” del pubblico distratto! Ma Gianfranco no, non si lamenta se ridiamo, o applaudiamo inopportunamente, perché il suo pubblico se lo porta sulla scena fin da subito, e ci chiamerebbe per nome, se potesse. Regia lineare, e sempre adatta, anche quando Gabriella lascia la postazione e si “mette a fare” Gertrude. Furbo il titolo, che rivela, in fondo, la sicurezza nei modi, nella messinscena, nella conoscenza del testo.
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