di Beatrice Moia (1993), facoltà di Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano
Amleto: la tragedia del dubbio? No, una favola per addormentarsi. Anche se poi il sonno non è assicurato. Originale comunque il tentativo del regista Francesco Lagi e dell’attore Francesco Colella che, in scena con il piccolo Ale (Alessandro Sbarsi), traspongono la tragedia shakespeariana in un’atmosfera fiabesca. L’operazione non banalizza tuttavia il senso profondo dell’opera, che anzi emerge ancora più forte nelle domande del bambino. La vicenda viene ambientata in una dimensione di apparente quotidianità: la famiglia del piccolo. «Prova a pensare se lo zio Luigi mi uccide e sposa la mamma….tu cosa faresti? Mi vendicheresti?» «Certo papà! Ma come si fa a vendicare?».
Domanda quasi paradossale nella sua atrocità. La risposta è una sorta di esegesi della follia. Amleto, per vendicare il padre, deve fingersi pazzo: deve fare qualcosa di insensato, almeno secondo il pensiero corrente. Come allontanare Ofelia, in questo caso una sorta di fidanzatina di Ale. «Ma allora – ecco la conclusione del bambino – Amleto non è pazzo, è scemo!». Sintesi riduttiva, sembrerebbe, anche se nessuno ha titoli per stabilire una gerarchia tra le letture del caso. La vera domanda è poi sempre la stessa: chi è davvero Amleto? Le risposte degli adulti sono variabili dell’infinito, quelle di un piccolo altrettanto fluttuanti.
E poi rimangono solo le grandi questioni di fondo. «Papà, ma alla fine moriamo tutti… io, te, la mamma, lo zio Luigi… perché?». «Non lo so perché, so solo che moriamo tutti, il resto è silenzio». Nessuna prospettiva di infinito, nessuna intuizione capace di iniettare speranze. A meno di non leggere la battuta finale del papà come un tentativo di riportare il discorso nella dimensione del fantastico, come una pennellata di sogno che restituisce emozione e addolcisce l’anima: «Ale, ti va se domani ti racconto una storia della Pimpa?».
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