recensione di Mariafrancesca Moro (1992) laureanda in Lettere Moderne presso l’Università Cattolica di Milano.
Qual è il modo giusto di avvicinarsi a uno dei più grandi capolavori della drammaturgia occidentale, ad Amleto? Sembra chiederci questo il giovane attore mentre, indeciso sul cosa indossare, ci guarda come fossimo uno specchio, in cerca della nostra approvazione. Un gesto tra i più semplici, routine quotidiana nel quale tutti possiamo immedesimarci. Frivole preoccupazioni dotate di una spontanea comicità, che con la loro semplicità annullano la barriera tra palco e platea, e gli spettatori sono ormai liberi di lasciarsi trascinare dalle emozioni, dai gesti dell’artista. Venti minuti che scorrono via in un soffio, eppure capaci di esprimere a pieno la poetica degli Zerogrammi. Una poetica intrisa di leggerezza, che riporta ogni cosa, anche la più complessa, alla sua forma originaria e ci riesce perfino con quell’intrigo di contrasti e dissidi che è la storia del principe di Danimarca. La più filosofica delle opere shakespeariane si fa così gesto puro, divenendo semplice da assimilare, così com’è semplice lasciarsi incantare da un passo di danza. “Che cosa ha a che fare tutto questo con Amleto?”- verrebbe da chiedersi. A primo impatto potrebbe sembrare una rappresentazione ostica, ermetica, quel tipo di arte di cui solo i grandi esperti comprendono il significato. No, invece non è così che va vissuto a parer mio lo ‘’Studio per A.’’: Stefano Mazzotta ci invita a liberarci di ogni preconcetto, ad abbandonare ogni traccia di vincolante razionalità e a cedere alle profonde sensazioni che la musica suadente e l’eleganza delle movenze suscitano in noi. Ed è esattamente questo che ho fatto ieri: mi sono gettata sulla sua opera istintivamente, di pancia, scoprendo un Amleto totalmente nuovo, un Amleto a peso zero.
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